«Forte impegno contro la povertà
Non è più tempo di assistenzialismo»

Il vescovo di Bergamo Francesco Beschi: è urgente porre sul tavolo scelte che mettano a disposizione risorse economiche con valenza sociale, in un orizzonte di corresponsabilità. I migranti non diventino il capro espiatorio di problemi che coi migranti non hanno niente a che fare.

Un’umanità senza una meta, senza una prospettiva, un’umanità che ha perso la ricerca del senso e del significato delle cose - a cominciare da quello della vita - è un’umanità svuotata, senza un orizzonte di speranza, destinata inevitabilmente ad un progressivo impoverimento. Eppure questo tema resta una questione fondamentale sulla quale tutti noi dobbiamo tornare a riflettere, per continuare ad alimentare la fiducia in un mondo migliore. Lo dice il vescovo di Bergamo, Francesco Beschi, preoccupato per la fatica a rappresentare a noi stessi speranze credibili e non illusorie, ma ottimista per la serietà e l’onesta che ancora oggi caratterizzano la comunità bergamasca e che, proprio grazie a queste doti, sarà capace di uscire dalla crisi che sta attraversando anche la società di casa nostra. A cui rivolge un invito: non si chiuda in se stessa, ma si apra all’Italia e al mondo - «le nostre eccellenze possono dare un grande contributo al Paese» - e sia d’esempio ai giovani - «hanno bisogno di adulti credibili». Il vescovo parla anche di povertà - «il tempo dell’assistenzialismo fine a se stesso è finito, servono interazione e corresponsabilità» -, di accoglienza e di immigrati. Con una sottolineatura: non facciamo diventare i migranti il capro espiatorio delle nostre tensioni. Se guardiamo tra le mura domestiche, ci accorgiamo che le difficoltà all’accoglienza nulla hanno a che vedere con gli immigrati...

Cominciamo da lontano. Oggi, in quasi ogni angolo del mondo, cambia tutto molto velocemente e - accade sempre più spesso - in maniera diversa rispetto a quel che ci attendiamo, il caso Trump su tutti. Ma, alla fine, cambia davvero qualcosa o restiamo sempre in uno sorta di attesa di un cambiamento che intimamente «sappiamo» - o speriamo - non arriverà mai?

«Credo che il cambiamento sia indiscutibile, molto veloce e soprattutto continuo: a volte immaginiamo che si esaurisca; in realtà stiamo sperimentando un cambiamento permanente e senza un approdo che in questo momento possa apparire convincente o definitivo. Non solo il cambiamento è strutturale e rapidissimo, ma anche radicale, profondo, capace di incidere su alcuni connotati della vita umana e sociale molto intimi del tutto decisivi. Ma allora la domanda che tutti devono porsi – dal papà alla mamma di famiglia, al dirigente d’azienda, al vescovo, a colui che governa una comunità - è questa: quale direzione ha assunto il cambiamento? E soprattutto: quale direzione vogliamo imprimere al cambiamento? Possiamo decidere la direzione del cambiamento? È su questo che si gioca l’irriducibilità della coscienza e della responsabilità umana che ritengo siano connotati che non devono cambiare mai. C’è infatti una irriducibilità della figura umana e della sua dignità, che ritengo debba mantenersi intatta a fronte di ogni cambiamento, e rimane indispensabile in ordine alla direzione da imprimere al cambiamento stesso».

Ma l’abbiamo una direzione da imprimere?

«Ne sono convinto: nel senso che a fronte del cambiamento che ci sconcerta, ci turba, ci impaurisce, dobbiamo riconoscere la quantità e la qualità dei fattori di crescita che il cambiamento ha introdotto: quello che rende più umana l’umanità è ciò a cui vogliamo approdare nel cammino del cambiamento».

Uno sguardo sull’Italia, un Paese dalle mille contraddizioni.... Ha sempre fiducia nel nostro Paese e negli italiani?

«Sì. Non è una fiducia a termine o limitata, è una fiducia profonda, che si alimenta dall’esperienza accumulata con il passare degli anni. Una fiducia che si nutre anche dal fatto che le nostre mille contraddizioni sono un limite, ma anche una risorsa: è vero che a volte diventano frammentazione, dispersione, paralisi, ma molto spesso sono fonte di nuove possibilità, di nuovi percorsi, che in altri Paesi è più difficile riconoscere. E poi ho fiducia nel nostro Paese e negli italiani perché incarnano una densità umana che ci viene riconosciuta da tutti e di cui io stesso sono testimone. Nonostante rarefazioni, svuotamenti, disorientamenti, c’è ancora una grande densità umana, molto peculiare perché alimentata da due sorgenti che sono autentici doni di Dio: la natura e la cultura. Il nostro Paese è stato capace di declinare nei secoli questo intreccio tra la bellezza di una natura incomparabile, spesso maltrattata, e la raffinatezza della cultura e dell’arte: l’originalità e la fonte della nostra densità umana sta proprio in questo intreccio».

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