In 2500 per J-Ax all'Arena estiva
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«Bergamo, benvenuti all'Illegale Tour. Fatemi sentire un bell'urlo raga!». L'abbreviazione sta per ragazzi. J-Ax chiama e i raga bergamaschi rispondono. L'appello è diretto, pieno di energia. Filosofia da Animal House, con ironia e violenza, verbale. Alessandro Aleotti, in arte J-Ax, è in gran forma, galvanizzato a dovere da un successo che negli ultimi mesi lo ha portato al disco d'oro di Deca Dance, e al trionfo al Wind Music Awards. Meglio di così non gli potrebbe andare: dischi gettonati, compreso quello del Due di picche con Neffa, concerti con tanta gente che salta sotto il palco. Nella prima serata del Summer Sound Festival 2.500 paganti si sperdono un po' nello spiazzo enorme a ridosso della Fiera, ma è naturale che sia così. J-Ax è uno strano rapper che ama il rock, e anche lo spaghetti funk degli Articolo 31.

Quando ha iniziato era un ragazzo arrabbiato, sbucato dalla periferia livida dell'hinterland milanese, ora è un quarantenne a venire che accetta di collaborare con quasi tutti, da Jovanotti a Marracash, passando per Pino Daniele e Neffa. Sud chiama Nord e tutti si mettono sulla stessa lunghezza d'onda. Lui è stato uno di parte, ma ora ha capito che il linguaggio dell'hip hop non deve necessariamente creare barriere. Il concerto, come direbbe un qualsiasi fan di J-Ax, spacca di brutto. Prima arriva il punk-rock rappato, poi il rap vero e proprio, poi si finisce con la solita pantomima dei bis, tornano o non tornano, e con I vecchietti fanno oh e più avanti ancora Free Drink.

Alle spalle i video, senza troppi effetti speciali. Sul palco la dinamica arriva dalle voci in movimento e dal movimento dei corpi. Chitarra, basso, batteria e deejay, l'Accademia delle teste dure. Si cammina a tempo sul fronte del palco, si gesticola, mani e braccia servono a comunicare, anzi a dare forza alla comunicazione. Il resto lo fanno i versi, taglienti, icastici, pronti a colpire, graffiare, divertire. J-Ax è anche licenzioso, d'altra parte il tour si qualifica da solo: «Illegale». Ma non vi aspettate chissà che. Qui si viaggia con le lance spuntate, sul confine del lecito, e solo qualche strappo porta il cantante a dire: «Aumentaci le dosi». Il rap, l'hop hop vanno presi per quello che sono: lingue popolari, metropolitane, nate dove il disagio impera e le parole non cercano giri per arrivare a segno. Nel rap, e J-Ax lo sa benissimo, le cose si dicono come si mangia, qualche volta vengono direttamente dalla pancia. Ma la visione è spesso corretta. Si volge lo sguardo verso le storture del mondo, si prendono per il bavero i tic della società, i costumi come sono, la televisione così com'è diventata. Acqua nella scuola, Vendesi idolo, Non è un film, Come io comando: J-Ax è un cantore dell'hinterland che ha solo alzato il tiro.

Prima, quando era negli Articolo 31, raccontava la realtà quotidiana della periferia, i meccanismi ruvidi che armavano i rapporti tra ragazzi, tra tipe e tipi; ora il punto di vista è più ambizioso, maturo, se vogliamo. «Non siamo figli della Moratti», grida prima di intonare Io mi rifiuto, col refrain che s'incolla in testa. Ieri J-Ax era un soggetto schiettamente insopportabile, contento d'esser così, pronto a odiare Lorenzo e Giovanni Pellino dal profondo del cuore; adesso è un rapper ammorbidito dalla vita, che pure ama i suoni ruvidissimi di «Rap& roll». Altro che funk. Le parole prendono a calci nel sedere la realtà dei giorni, anche se il linguaggio è più levigato d'un tempo. I versi scivolano, il respiro tronco del rap carica a pallettoni il messaggio. Dovunque ti giri, sotto il palco, vedi braccia alzate, movimenti cadenzati dal ritmo, dita che guardano il cielo e corna che inneggiano a nulla di preoccupante. I segnali restano contraddittori, ma facilmente decifrabili. In fondo la genialità del rap sta nel processo circolare che l'anima: un loop che parte dal mondo, dalla sua bruttezza, per trasformare quel pezzo di bruttura in una peculiare forma d'arte, d'avanguardia ormai attempata.

Ugo Bacci

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