Tra politica incoerente
e senso dello stato

Di certo non sono state le prime, e difficilmente saranno le ultime, ma quelle scritte in questa settimana entrano a pieno titolo tra le peggiori pagine che la politica italiana abbia mai prodotto nella storia repubblicana. In discussione, naturalmente, non c’è il punto di arrivo - la rielezione di Sergio Mattarella al Quirinale è l’unica cosa sensata uscita dall’emiciclo di Montecitorio -, ma come ci si è arrivati, dopo sei giorni in cui i partiti e i loro leader hanno dimostrato la loro incapacità e inconcludenza. Di fronte a un problema ampiamente noto (già nel maggio dello scorso anno il Capo dello Stato aveva dichiarato apertamente l’indisponibilità a restare sul Colle oltre il termine naturale del mandato, tralasciando il fatto che anche sette anni fa si sapeva che di questi tempi si sarebbe dovuto eleggere il suo successore), la politica ha finito con l’alzare le mani in segno di impotenza, rifugiandosi alla fine, e in estremo stato di necessità, nell’unico angolo in cui albergano ancora i sentimenti e l’intelligenza di cui il Paese ha bisogno: il senso dello Stato di Sergio Mattarella, a cui va la riconoscenza di tutti gli italiani.

Gli stessi verso cui gli esponenti dei partiti non hanno dimostrato alcun rispetto, incuranti del fatto che da due anni in qua, schiacciati dal peso di una terribile pandemia, tirano faticosamente la carretta per tenere a galla il Paese. Il bis di Mattarella, in estrema sintesi, altro non è che il disastro della politica e dei suoi interpreti. Una politica che dallo scorso lunedì, tra veti, contro-veti e veti incrociati, perseguendo tattiche illogiche e suicide, non ha fatto altro che confessare apertamente di non saper anteporre gli interessi di un popolo e di una nazione a quelli di una o più forze politiche, dando al mondo un’immagine assai poco edificante del nostro Paese.

Ma siccome il peggio non ha mai fine, prepariamoci - almeno fino alle prossime elezioni - al peggio del peggio. Eccesso di pessimismo o di antipolitica? Populismo? Forse, ma non del tutto fuori luogo se andiamo a rileggere quanto disse Giorgio Napolitano il 22 aprile del 2013 nel discorso del suo secondo insediamento sul Colle della Repubblica. «Quanto è accaduto nei giorni scorsi ha rappresentato il punto di arrivo di una lunga serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità (...). Negli ultimi anni, a esigenze fondate e domande pressanti di riforma delle istituzioni e di rinnovamento della politica e dei partiti - che si sono intrecciate con un’acuta crisi finanziaria, con una pesante recessione, con un crescente malessere sociale - non si sono date soluzioni soddisfacenti: hanno finito per prevalere contrapposizioni, lentezze, esitazioni circa le scelte da compiere, calcoli di convenienza, tatticismi e strumentalismi (...). Imperdonabile resta la mancata riforma della legge elettorale del 2005(...).

Non meno imperdonabile resta il nulla di fatto in materia di sia pur limitate e mirate riforme della seconda parte della Costituzione, faticosamente concordate e poi affossate, e peraltro mai giunte a infrangere il tabù del bicameralismo paritario». E ancora: «Il fatto che in Italia si sia diffusa una sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni, convergenze tra forze politiche diverse, è segno di una regressione, di un diffondersi dell’idea che si possa fare politica senza conoscere o riconoscere le complesse problematiche del governare la cosa pubblica e le implicazioni che ne discendono in termini, appunto, di mediazioni, intese, alleanze politiche». Parole che nove anni dopo mantengono purtroppo una freschezza impressionante, ma che già allora, facendo presagire che nulla sarebbe cambiato, vennero accolte da un’aula plaudente nonostante fosse il bersaglio delle pesanti critiche del Capo dello Stato. Per Mattarella, rimasto sul Colle, ora l’impegno si presenta due volte più faticoso, non solo perché costretto a riporre nel cassetto i propri sogni di «libertà» per rivestire nuovamente i panni del garante di tutti gli italiani, ma anche perché, per farlo, avrà bisogno dell’aiuto di questa classe politica.

Scambiare per incoerenza il suo alto senso di responsabilità e di rispetto verso le istituzioni - che è ciò che l’hanno spinto a cedere alle richieste del Parlamento - è la cosa più sbagliata che si possa pensare: quello di Mattarella è un sacrificio vero per il proprio Paese, e non c’è dubbio che prima di accettare il reincarico, il Presidente abbia pensato anche al sacrificio del fratello Piersanti e agli insegnamenti del padre, Bernardo, dalla cui statura morale ha tratto i profondi valori che lo animano. Il vero patriota è lui, non certo quello immaginato dalla Meloni. E a proposito di centrodestra, nelle prossime ore assisteremo alla resa dei conti tra le diverse forze politiche che lo anima(va)no, Lega in testa, che non ha certo brillato per acume politico. Con Sergio Mattarella al Quirinale, Mario Draghi a Palazzo Chigi, Pierferdinando Casini che lascia l’aula tra gli applausi, e Giuliano Amato eletto presidente della Corte Costituzionale, si può tranquillamente dire che abbia vinto la prima Repubblica, che la politica, quella vera, la conosceva e la sapeva fare. Potrà anche non essere un bene e non piacere, ma la realtà è sotto gli occhi di tutti. Una riflessione al riguardo, forse, vale la pena farla. Se alla soglia della terza (o quarta) Repubblica ci affidiamo (e per fortuna) a personalità della prima per uscire dai guai, c’è qualcosa che non va non solo nella politica, ma nella cattiva predicazione di certi pifferai magici.

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