Roberto Donadoni sull’Atalanta:
«Serve concentrarsi e stare sereni»

Tra i più grandi calciatori bergamaschi, Donadoni da tecnico ha vissuto situazioni difficili. E vede un solo rimedio per ripartire bene: «Concentrarsi e proteggere la serenità del gruppo».

«Adesso sono incasinato, certo che l’intervista la facciamo, ma proviamoci alle 18, oggi pomeriggio». Roberto Donadoni, pur senza panchina (esaurito il rapporto col Bologna alla fine dello scorso campionato), non sta certo con le mani in mano. Uno dei più grandi calciatori bergamaschi – di Cisano – dell’era moderna (tanto per gradire sette scudetti e tre Coppe dei Campioni col Milan a cavallo degli anni Novanta, vicecampione ai Mondiali 1994 con la Nazionale, ma c’è dell’altro), prodotto del vivaio atalantino e successore su quella fascia destra di Angelo Domenghini, il mese scorso era in Giappone. Obiettivo aggiornamento professionale, ampliando il raggio d’azione.

Va a vuoto il tentativo delle 18 («Ho solo dieci minuti, per una cosa fatta bene meglio alle 11, domattina»). Precisino, quasi chirurgico, ma dall’esito sicuro, come quando sterzava con quel suo dribbling speciale a rientrare dal quale ben pochi terzini uscivano indenni. Prima del Milan, quattro anni felici (1982/86) d’Atalanta targata Bianchi e poi Sonetti, allievo d’Eugenio Perico, fra Magrin, Strömberg e Agostinelli, lui primo acquisto (dieci miliardi di lire sull’unghia) dell’era Berlusconi. Epperò pure alle 11 il cellulare squilla vanamente («Fra un’ora, grazie», arriva puntuale il messaggio). Sicché, una volta stabilito il contatto, non è proprio il caso di perdersi in chiacchiere.

Mister, se l’aspettava un’Atalanta quartultima, dopo le ultime due stagioni in Europa League?

«Ci sta. Oserei dire che rientra nella logica delle cose, se consideriamo equilibratamente quanto sia difficile gareggiare a livelli importanti».

Allora lei s’allinea a chi sostiene che l’Atalanta è rientrata nei ranghi e sta riappropriandosi del suo ruolo naturale di squadra che deve solo salvarsi.

«No. Credo l’esatto contrario. Se ci si lascia impadronire da questi ragionamenti pessimistici, buonanotte. L’Atalanta ha iniziato consapevolmente un processo di crescita che deve consolidarsi. Il suo posto nel calcio italiano può essere benissimo stabilmente di una classifica di sinistra. Magari non in diretta competizione con le prime quattro o cinque, ma subito dopo perché no?».

Però è normale che ora l’opinione pubblica resti influenzata dai risultati.

«Il processo di crescita ha bisogno d’avanzare di pari passo e tutte le componenti devono contribuire. Intendo la forza della società, la qualità dell’organico e la compattezza dell’ambiente. Mi pare che i primi due ingredienti non manchino. E i tifosi a Bergamo sono rinomati per il loro attaccamento».

Tutti gli osservatori dicevano che la fase offensiva dell’Atalanta non è mai stata tanto ricca, eppure paradossalmente nelle ultime nove partite ha realizzato solo in due occasioni.

«La spiegazione sta nel non cercare e quindi non trovare spiegazioni. Complessivamente la rosa non sembra inferiore alle precedenti e gli attaccanti più numerosi, ma bisogna poi trovare gli accoppiamenti giusti e qualche volta serve più tempo del previsto. Del resto ricordo che Gasperini, all’inizio, stava per esser mandato via, a quanto si diceva. Poi si è visto quel che ha fatto».

Come si esce dall’attuale situazione complicata, chiesto a lei che da allenatore ne ha vissute di simili, compreso il periodo al timone della Nazionale e l’ultima stagione a Bologna?

«Concentrandosi. Per concentrarsi bisogna isolarsi. Tutto ciò che proviene dall’esterno costituisce una contaminazione e mina la serenità del gruppo, che già è messa a dura prova dalla mancanza di risultati».

A proposito di Bologna, che ora come ora è concorrente diretto dell’Atalanta, di cui ha un punto in più in classifica...

«La classifica deve ancora stabilizzarsi, comunque il Bologna, a detta dei suoi dirigenti, coltiva le stesse ambizioni dell’Atalanta, cioè una classifica di sinistra».

È andato via lei, ma la squadra continua a far fatica. Chi ha visto l’ultima partita, a Cagliari, riferisce di una prestazione molto incolore.

«Ho sentito. Miglioreranno».

E il Chievo, ultimo in classifica, che ha cambiato allenatore proprio adesso che deve incontrare l’Atalanta?

«Indubbiamente per l’Atalanta, domenica prossima, l’avvicendamento in panchina col passaggio da D’Anna a Ventura costituirà un ostacolo in più. Il Chievo non è certo rassegnato, ma non ha tempo da perdere».

Brutta gatta da pelare...

«Sì, ma tecnicamente l’Atalanta è nettamente più attrezzata del Chievo. Su questo non ci piove».

Senta, Donadoni, lei allenatore, non è mai stato vicino all’Atalanta?

«No. Solo una volta ci fu una chiacchierata, ai tempi della presidenza Ruggeri. Ma fu una chiacchierata informale, senza seguito».

Quando?

«Non mi ricordo».

Eppure sarà per la sua origine bergamasca ma ogni volta che si ha notizia che l’Atalanta cerca allenatore salta fuori il suo nome.

«Non è il caso di meravigliarsi, ma sono sempre state voci infondate».

E se prima o poi l’Atalanta la chiamasse?

«L’Atalanta è un’ottima realtà. Per un allenatore il punto di partenza per qualsiasi ragionamento non può che essere questo. Io comunque sono apertissimo a varie soluzioni. Chi se lo ricorda più ma, da calciatore, sono stato campione dell’Arabia Saudita, nel 1999, con l’Al-Ittihad. E quell’anno vincemmo pure la Coppa del Re. Senza contare l’esperienza negli Stati Uniti con i New York Metrostars, nel 1996,quando il calcio in America era agli albori».

Ecco perché è reduce dal Giappone.

«Il calcio asiatico non va sottovalutato. Naturalmente l’interesse principale, all’estero, resta rivolto all’Inghilterra, alla Germania, alla Spagna. Ma anche altrove, basta che ci sia un serio progetto».

L’attuale strapotere della Juventus in serie A ha pochi precedenti. Qualcuno azzarda che l’unico sia il Milan di Van Basten, Gullit Rijkaard... e Donadoni. Lei che fu protagonista di quel Milan che ne dice?

«In quegli anni però c’era più concorrenza, con l’Inter, la Juventus, la Roma e il Napoli di Maradona che non si facevano mancare niente. Ora mi sembra leggermente più facile perché le due milanesi stanno uscendo da crisi societarie che hanno portato a cambi di proprietà abbastanza traumatici, dato il carisma di Berlusconi e Moratti, i due presidenti uscenti».

La sua carriera di top player si può dire sia stata profetizzata da Berlusconi. Lei però non doveva andare al Milan.

«Vero. Ci misi del mio, appoggiato dall’allora direttore sportivo dell’Atalanta, Previtali. Allora i Bortolotti, che erano i proprietari dell’Atalanta, avevano aperto una corsia preferenziale alla Juventus di Boniperti e Agnelli, l’Avvocato, che mi volevano al pari di Berlusconi. Fui io a scegliere il Milan».

E perché?

«La stessa domanda che mi rivolse Cesare Bortolotti, a trattativa conclusa, visto che tutti i giocatori alla Juventus andavano di corsa. Gli risposi, ringraziandolo, che io sin da ragazzino avevo sempre fatto il tifo per il Milan e che per me quel trasferimento era il coronamento di un sogno».

Mister, e allora – come in una fiaba – il suo approdo naturale, a 55 anni, non potrebbe essere proprio la panchina del Milan?

Domanda non posta, Donadoni non avrebbe dato risposta.

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