Arresto cardiaco, salvato in un’ora
«Non succede neppure nei telefilm Usa»

La storia a lieto fine di un uomo di 58 anni vivo grazie al tempestivo intervento dei soccorritori e dei medici dell’ospedale «Papa Giovanni» di Bergamo. Fondamentale il massaggio cardiaco. Lorini e Senni: «Dobbiamo essere orgogliosi di quanto riusciamo a fare».

Un dolore lancinante, al petto, così forte da togliere il fiato: lui, 58 anni, al volante della sua auto, mentre rientrava a casa verso Monza sull’autostrada A4, riesce a trovare la freddezza per non sbandare e appena arrivato all’altezza del casello di Seriate esce, ferma la vettura e chiama da solo i soccorsi.

È successo alle 8,33 di venerdì 20 dicembre: in pochissimi minuti è arrivato un mezzo con medico rianimatore, che trova l’uomo fuori dall’auto, lo vede balbettare qualcosa e poi accasciarsi al suolo. Il medico, Amer Mohamed, capisce subito di avere davanti un caso di choc cardiaco e comincia il massaggio. Non solo: si muove con estrema professionalità perché fa dirottare l’ambulanza verso il «Papa Giovanni XXIII» di Bergamo, avvertendo lui stesso l’ospedale che sta arrivando con una persona in arresto cardiaco. «Preparate l’Ecmo, il caso è grave», aggiunge. «Quest’uomo è stato salvato grazie alla perfetta efficienza che l’ospedale di Bergamo ha attivato in armonia con i servizi del territorio – spiegano all’unisono, con il caso risolto felicemente, Luca Lorini, direttore del dipartimento di Emergenza urgenza e area critica al «Papa Giovanni», e Michele Senni, direttore del dipartimento Cardiovascolare –. Dal tempo zero, cioè da quando è stato attestato l’arresto cardiaco, alla conclusione della procedura necessaria per risolvere l’infarto e nello stesso tempo, con l’Ecmo, proteggere cuore, polmoni e cervello di questo paziente, è passato meno di un’ora e mezza. Queste cose non succedono neppure nei più ottimistici telefilm di produzione americana sulla medicina d’urgenza. Ma accadono a Bergamo, uno dei quattro centri accreditati in Lombardia per lo choc cardiogeno con il “San Raffaele” di Milano, il “San Matteo” di Pavia e il “Niguarda” di Milano. Dobbiamo essere orgogliosi di quanto riusciamo a fare. Ma si può fare ancora di più: serve una campagna di prevenzione che coinvolga tutta la popolazione. In particolare le giovani generazioni».

E Lorini e Senni spiegano perché. «È vero che oggi, se si è colpiti da infarto e si arriva in ospedale in un tempo ragionevole, il rischio decesso è scongiurato: le morti sono al 3-4%. Ma la questione dei tempi è fondamentale: a differenza di uno choc cardiaco non in arresto, quando il tempo per recuperare il vaso occluso è di sei ore, il cervello, invece, in caso di arresto cardiaco può resistere al massimo otto minuti senza l’afflusso di sangue – rimarcano Lorini e Senni –. In sostanza, i cardiologi interventisti, i rianimatori, i perfusionisti possono sì intervenire per “sistemare” un cuore in infarto, ma bastano pochissimi minuti perché le funzioni cerebrali in sostanza degenerino. In quel caso, sembra crudo dover dirlo così, si “guarisce” dall’infarto ma in stato vegetativo, senza funzioni cerebrali. E questo è quello che non vogliamo».

Perciò la vicenda del cinquantottenne di Monza è esemplare per l’efficienza del «sistema Bergamo»: gli è stato garantito il massaggio cardiaco e quindi l’afflusso di sangue al cervello durante il trasporto in ospedale, che era già pronto con l’Ecmo, la macchina cuore-polmoni, e per attivare la procedura per «liberare» i vasi sanguigni ostruiti. Questo grazie al lavoro coordinato di Mohamed Ahmed, arrivato come primo soccorso, del cardiologo Luigi Fiocca (della Cardiologia-emodinamica invasiva guidata da Giulio Guagliumi) dei cardiorianimatori Lorenzo Grazioli e Stefania Cerutti e del perfusionista Davide Ghitti all’Ecmo.

«Ha funzionato perfettamente il coordinamento fra territorio e ospedale – aggiungono Lorini e Senni –. Ma quel quid in più da fare è diffondere la capacità di intervenire correttamente davanti a un caso di arresto cardiaco, per portare sangue al cervello della persona che sta male, in attesa che arrivino i soccorsi e che venga trasferita in ospedale. Si parla di defibrillatori, ma bisogna saperli maneggiare, e le persone addestrate sono poche. La manovra di rianimazione Bls, invece, è semplicissima, efficace e va insegnata a quante più persone possibile: nelle scuole, nei centri sportivi, nei posti di lavoro. Bastano trenta ore di simulazione sui manichini e un esame pratico: noi, al “Papa Giovanni”, abbiamo già garantito il patentino Bls ai trenta studenti della nostra School of medicine, facoltà di Medicina in inglese dell’Università Bicocca di Milano, in stretta collaborazione con l’Università del Surrey e del nostro ateneo. Qui si fa medicina e non accademia: al secondo anno questi ragazzi conoscono manovre che altri probabilmente non hanno mai praticato; avere un corso universitario nel nostro ospedale dove gli studenti imparano non solo la teoria ma anche cose che negli ospedali puramente universitari non vengono fatte è molto importante; per esempio, per la tecnica Bls questi ragazzi a loro volta possono trasformarsi da discenti in futuri insegnanti. Lo stesso accadrebbe se si insegnasse ai professori di scuola, agli studenti bergamaschi la tecnica Bls. Diciamola in metafora calcistica: vogliamo creare un vivaio di esperti di massaggio cardiaco. Noi siamo pronti e disponibili». Il cinquantottenne di Monza, intanto, è uscito dalla Terapia intensiva: trascorrerà il Capodanno a casa.

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