Studio inglese:«I contagiati? Moltiplicateli x 65»
Al 28 marzo quasi 6 milioni di malati

L’epidemia analizzata dall’Imperial College. «Le misure restrittive funzionano e devono continuare».

Nel mondo globalizzato, fortunatamente l’informazione corre veloce come le infezioni: altrimenti saremmo ancora qui davanti ai dati ufficiali della diffusione di questo coronavirus, che ogni settimana che passa si rivelano una fotografia sempre più distante dalla realtà. E non capire cosa sta succedendo significa naturalmente anche rischiare di sbagliare tipo di intervento.

Ma ora da molte fonti - prima fra tutte il nostro giornale e il sistematico lavoro sul territorio dei colleghi - sta emergendo la verità, che i nostri lettori come tendenza generale hanno compreso già: i contagiati in Italia sono circa 65 volte le cifre ufficiali (5,9 milioni contro 92 mila). E sono stime che si basano sui dati ufficiali dei decessi, anche questi a loro volta ampiamente sottostimati - come osserviamo sul nostro territorio e come indica l’analisi dei dati di Isaia Invernizzi pubblicata alle pagine 4 e 5.

Un gap simile (x100) era stato previsto da Ilaria Capua, sulla base della sua esperienza di virologa internazionale, e anche, seguendo un metodo puramente statistico, da Tomas Pueyo (un più prudente x30 /x60) su Medium.com tre settimane fa (ne abbiamo scritto allora): quasi ignorati dai nostri decisori.

Il virologo Roberto Burioni ha stigmatizzato immediatamente le nuove stime, che arrivano da uno studio inglese, sul suo sito Medical Facts (fatti, non opinioni): «È appena uscito uno studio sull’epidemia di Covid-19  in Europa degli epidemiologi dell’Imperial College di Londra, tra i più bravi del mondo. Contiene tanti dati, il più rilevante è la stima del numero di persone che sono state infettate in Italia al 28 marzo 2020. Questa stima corrisponde al 9,8% della popolazione, quindi intorno a 5,9 milioni di casi».

In pratica un italiano su dieci è già contagiato. Se poi si tiene conto del fatto che il Nord è molto più contagiato del Sud, quel 9,8% sul nostro territorio cosa può diventare?

Pauroso, eh? Ma fino a un certo punto: questo sconvolgimento dei dati degli infetti, che non si ferma ai (pochi) tamponi effettuati (il difetto del metodo usato finora è che mette al centro l’attività degli ospedali e non l’osservazione di quanto avviene sul territorio), significa anche che questo coronavirus nella maggior parte dei casi viene affrontato dal nostro organismo e superato come una normale crisi virale, passeggera, e la mortalità scenderebbe, a livello nazionale, attorno allo 0,2% (mentre a leggere i dati ufficiali sembra attorno a uno spaventoso 11,6%).

Lo studio britannico, fra l’altro, non assegna a noi italiani la maglia nera delle diffusione del virus, e descrive tutta un’Europa profondamente infetta, con alcune lodevoli eccezioni (la Germania): mostra una Spagna devastata con un 15% della popolazione contagiata (e strutture sanitarie al collasso); infezioni al 3,7% in Belgio, al 3,2% nella pulitissima e ordinatissima Svizzera, 3,1% in Svezia, 3% in Francia, e un sonoro 2,7% rilevato anche nel Regno Unito, che fino a due settimane fa voleva far finta che il Sars Cov-2 nell’Isola non esistesse.

Burioni contro le cifre ufficiali

Burioni non usa mezzi termini: «Capite perché i numeri che sentite in tv ogni giorno alle 18 non hanno molto significato?». Con tanti saluti alle conferenze stampa della Protezione civile.

Lo studio inglese conta 35 pagine di dati, grafici, osservazioni. Proviamo a scorrerlo per cogliere alcuni dettagli. Anzitutto si dichiara, correttamente, il metodo dell’indagine: «Il nostro modello stima i cambiamenti calcolando all’indietro a partire dalle morti osservate nel tempo, per stimare la trasmissione avvenuta diverse settimane prima».

Il rapporto dell’Imperial College britannico conferma che le misure di contenimento prese in Italia funzionano: «Stimiamo che il numero Rt (il numero medio di contagiati da un singolo individuo infetto, ndr) sia sceso a quasi 1 nel periodo di blocco (dall’11 marzo), sebbene con un elevato livello di incertezza. Complessivamente, stimiamo che i Paesi europei siano riusciti a ridurre l’impatto del virus».

Dunque stare distanti funziona: l’Imperial College valuta che rimanere fermi in queste settimane in 11 Paesi abbia già evitato «59 mila morti fino al 31 marzo. Molte altre verranno evitate garantendo che gli interventi rimangano in vigore fino a quando la trasmissione non scenderà a livelli bassi». In Europa ci sarebbero «tra 7 e 43 milioni di individui infettati con il Sars Cov-2 al 28 marzo», un numero che, a seconda della diversa diffusione del virus nei vari Paesi, rappresenta «tra l’1,88% e l’11,43% della popolazione».

«È quindi fondamentale che gli attuali interventi rimangano in atto - dice il rapporto - e che le tendenze nei casi di contagio e nei decessi siano attentamente monitorate nei prossimi giorni e settimane, per rassicurare che la trasmissione del Sars Cov-2 stia rallentando. Comprendere, in primo luogo, se questi interventi stanno avendo l’effetto desiderato di controllare l’epidemia e, in secondo luogo, quali interventi sono necessari per mantenere il controllo, è fondamentale alla luce dei loro grandi costi economici e sociali». Come si vede è empirico, e mai ideologico l’approccio al problema pandemia degli scienziati britannici: valutiamo passo per passo cosa funziona, e fino a che punto funziona.

I Paesi orientali, ricorda il rapporto, hanno fatto meglio di noi: «In Cina, dal 23 gennaio sono state introdotte rigide restrizioni ai movimenti e altre misure molto efficaci», che in un paio di mesi hanno fermato il contagio. «Le misure di controllo come il distanziamento sociale, i tamponi frequenti e la tracciabilità dei contatti in altri Paesi come Singapore e la Corea del Sud hanno ridotto con successo l’incidenza dei casi nelle ultime settimane, sebbene esista il rischio che il virus si diffonda nuovamente una volta allentate le misure».

Il rapporto inglese dice anche che l’epidemia di Covid-19 in Europa non è iniziata alla fine di febbraio, come credono ancora in molti, ma «a gennaio». O forse anche alla fine di dicembre, se è vero che un ritardo nelle rilevazioni è inevitabile, e anche questo rapporto sa di scontarlo: «La maggior parte dei Paesi finora ha la capacità di testare solo una piccola parte dei casi sospetti e i tamponi sono riservati ai pazienti gravemente malati o ai gruppi ad alto rischio. Osservare i dati dei contagi, quindi, offre una visione sistematicamente parziale delle tendenze passate». Così come, aggiungiamo noi, sfuggono ancora alle statistiche globali tutti i casi di morte non registrati come Covid-19, perché avvenuti, soprattutto qui da noi, nelle abitazioni e nelle case di riposo, fuori controllo: essi porterebbero, in particolare nella nostra provincia, i dati dei contagiati ancora decisamente più su.

59 mila persone salvate dal blocco

Il difetto nelle valutazioni, del resto, è mal comune in Europa, «probabilmente a causa della presenza di molte infezioni lievi e asintomatiche, nonché della capacità di fare dei tamponi limitata».

Ed ecco, a pagina 5, la sentenza completa sul nostro Paese: «In Italia, i nostri risultati suggeriscono che, fino al 28 marzo siano stati infettati 5,9 (con una forbice tra 1,9 e 15,2) milioni di persone, con un tasso di attacco del virus 9,8% (forbice tra 3,2% e 25%)». Se teniamo presente, appunto, che il Nord del Paese è molto più colpito del Sud, e che Bergamo è l’area più colpita del Nord, quel «ce l’abbiamo addosso quasi tutti» che si sente ripetere dai nostri medici di base non sembra essere molto lontano dalla realtà.

Il rapporto inglese valuta che i blocchi sociali abbiano portato a «una riduzione del 64% rispetto ai valori» del contagio registrati prima delle misure drastiche assunte dai governi. Purtroppo «rimane un alto livello di incertezza in queste stime», perché i Paesi europei hanno realtà geografiche, sociali, sanitarie molto diverse, ma l’Imperial College ha provato a calcolare i decessi totali evitati finora: 59 mila (21/120 mila) in 11 Paesi; in Italia 38 mila (13/84 mila).

Immunità di gregge lontana

Gli studiosi britannici sottolineano anche il fatto che «le popolazioni in Europa non sono affatto vicine all’immunità di gregge». Anzi, con i valori di contagio che ora «diminuiscono sostanzialmente, il tasso di acquisizione dell’immunità di gregge rallenterà rapidamente. Ciò implica che il virus sarà in grado di diffondersi di nuovo in fretta in caso di revoca degli interventi» di blocco sociale; e anche che un virus che sembra debellato in un Paese, fra qualche mese potrebbe rientrare dalla finestra di un viaggio all’estero e attecchire di nuovo. Per questo le stime attuali «devono essere convalidate urgentemente da test sugli anticorpi di nuova concezione, effettuando saggi rappresentativi della popolazione», per vedere se davvero saremo diventati resistenti al Sars Cov-2 e potremo riprendere la vita pre-crisi, oppure no. Dunque non solo i tamponi ai malati, ma test di massa saranno assolutamente necessari anche per riaprire le porte delle nostre case.

Oggi «possiamo già vedere dei cambiamenti nelle tendenze dei decessi più recenti» conclude il rapporto, ed è quello che stiamo osservando in Lombardia proprio negli ultimi giorni: e «se le tendenze attuali continuano, c’è motivo di ottimismo».

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