Da Bergamo al Museo di Indianapolis
«Così promuovo 54 mila opere d’arte»

Un paio di settimane fa il quotidiano inglese «The Guardian» le ha dedicato un’ampia intervista nella sezione Cultura del suo sito Internet e ad aprile è stata invitata a tenere una conferenza al MuseumNext2015, uno dei più importanti eventi dedicati ai professionisti della rete culturale che si è tenuta a Ginevra.

Silvia Filippini Fantoni, 41 anni, è il direttore di Mediazione, nuovi media e ricerca sul pubblico del Museo d’arte di Indianapolis negli Stati Uniti, un profilo professionale ancora poco conosciuto nei musei italiani, ma che in realtà è sempre più richiesto a livello internazionale perché ha il compito delicato di avvicinare l’opera d’arte e il messaggio di un artista al grande pubblico.

«Se si vuole avvicinare il pubblico all’opera d’arte – è il motto di Silvia Filippini Fantoni – bisogna chiedere al visitatore quello che pensa quando entra in un museo e non ritenere di sapere a priori quello che pensa il visitatore». Il pubblico è molto cambiato negli anni e non si accontenta più di andare al museo e ammirare le opere d’arte ma piuttosto vuole vivere un’esperienza multisensoriale, provare delle emozioni, partecipare anche con l’uso dei nuovi mezzi che la tecnologia mette a disposizione.

Silvia Filippini Fantoni coordina uno staff di nove persone a tempo pieno oltre ad alcuni collaboratori esterni, e utilizza vari metodi di indagine sul pubblico per comprendere quali sono le sue aspettative, conoscenze, opinioni in merito alla fruizione dell’offerta museale. Si muove poi in stretta collaborazione con il curatore, il logista e il designer fin dalle prime fasi di costruzione di una nuova mostra in modo da renderla un’esperienza piacevole e duratura per il pubblico.

Il risultato di questo nuovo approccio? Il Museo d’arte di Indianapolis - che vanta una collezione di 54 mila opere per un periodo di 5 mila anni, con un bel giardino, un parco di arte contemporanea, una serra e due case storiche - ha raddoppiato negli ultimi anni i visitatori delle sue mostre. «Le persone – spiega Silvia – vengono al museo spinti da curiosità e passione per l’arte, ma sempre più anche perché ritengono che il museo sia un luogo bello da vivere e un posto che offre un’esperienza da condividere con familiari e amici. Le coppiette di adolescenti si danno il primo appuntamento qui, per esempio, e le famiglie trascorrono il weekend al museo: questa per noi è la soddisfazione più grande».

Silvia ha mosso i primi passi della sua formazione a Bergamo, al liceo linguistico Falcone, e poi all’Università degli Studi di Milano, dove ha conseguito una laurea in Storia. «Studiare in un edificio rinascimentale fa la differenza» dice facendo notare come in Italia siamo a volte inconsapevolmente circondati dal bello e dall’arte fin da piccoli, un fatto non scontato in altri Paesi. Silvia però ha da sempre tenuto lo sguardo aperto oltreconfine. «La chiave di volta delle mie successive scelte – spiega – è avvenuta attraverso l’Erasmus e la tesi all’Università di Amsterdam nei Paesi Bassi prima e poi una borsa di studio per lavorare nel settore dell’informatizzazione dei musei al Maastricht McLuhan Institute».

Per ragioni di studio ha fatto poi uno stage a Parigi, al Museo del Louvre, e ha conseguito un master e un dottorato all’Università Sorbona, dove tra l’altro oggi è chiamata ogni anno a tenere dei corsi in Museologia e nuovi media e in Sociologia del pubblico. Dal Louvre al British Museum fino al volo oltreoceano al J. P. Getty Museum di Los Angeles, sempre più specializzandosi nel rapporto tra nuove tecnologie, arte e pubblico. «Ma ho un bellissimo ricordo – ci tiene a dire – anche di Bergamo e dell’esperienza all’Accademia Carrara, con il conservatore della Pinacoteca Giovanni Valagussa, per cui ho curato il sito internet della mostra dedicata a Cezanne e Renoir nel 2005. In questi giorni ho seguito con emozione la riapertura della Carrara, una pinacoteca della città e dei suoi cittadini».

Al Museo di arte di Indianapolis da tre anni e mezzo è libera di sperimentare l’allestimento di mostre molto apprezzate dal pubblico. Il visitatore non è mai uno spettatore passivo ma parte della mostra d’arte. «Per fare questo – spiega – è necessario consultare il pubblico continuamente, in varie fasi, e con vari metodi di indagine. Con il curatore mettiamo a fuoco quali sono i messaggi chiave (dell’artista, del contesto storico sociale…) che vogliamo comunicare e poi ci confrontiamo con il pubblico per capire che domande si fa rispetto a quell’autore o a quel periodo. Per esempio a ottobre proporremo una mostra su Gustave Baumann, un artista tedesco vissuto negli Usa. Per Baumann non era importante come produceva le sue stampe su matrici in legno ma solo l’opera finale. Il pubblico però ci ha fatto capire in un’indagine in preparazione della mostra che è interessato a comprendere come nascono le opere di Baumann. Per questo abbiamo chiesto a uno stampatore di tenere un laboratorio in una sala in cui si potranno cimentare anche i visitatori. Questa scelta però ha significato forzare un po’ la mano rispetto alla centralità del pensiero dell’artista: non è sempre facile e i curatori tendono sempre a porre delle resistenze a questi processi di fruizione più popolari».

«Poco tempo fa abbiamo proposto una mostra sui ritratti nel Neoimpressionismo – spiega ancora -: dalle indagini sul pubblico abbiamo visto che la maggior parte delle persone conosce l’Impressionismo ma non il Neoimpressionismo. Il curatore ha sgranato gli occhi quando ho proposto di aprire la mostra con una giustapposizione tra un quadro impressionista e uno neoimpressionista per poi spiegare ai visitatori le differenze con le opere che avrebbero visto nelle sale successive. La gente così però è partita da qualcosa che gli risultava famigliare per aprirsi a nuove conoscenze. Nella stessa mostra abbiamo proposto ai visitatori una app su iPad per farsi un “selfie” e poi piano piano trasformarlo in un quadro sperimentando le varie tecniche neoespressioniste: il ritratto finale veniva proiettato alla fine della mostra e inviato via email ai visitatori».

Silvia e il suo staff amano sperimentare: «Un po’ meno correre il rischio di sbagliare – dice – ma se si vuole cambiare e innovare bisogna mettere in conto che qualche cosa potrà andare anche storto». Al Museo d’arte di Indianapolis negli anni ci si è allontanati sempre di più da approcci più tradizionali come conferenze e simposi per puntare su esperienze più ludiche, che promuovono la partecipazione, l’interazione sociale e la creatività al museo. Sono nati così il parco pop-up del museo, un’esperienza di museo caffè durante i mesi invernali, avant-brunch, un’esperienza multisensoriale di musica, cibo e arte, ma anche il bingo B-movie, un gioco interattivo sui luoghi comuni del cinema rivolti alla famiglia. «Abbiamo rotto molti tabù – dice -: abbiamo persino portato per un giorno i video giochi delle corse in automobile nella sala espositiva principale per inaugurare una mostra sul design delle auto. Una scelta molto apprezzata e che ha avvicinato le famiglie e i turisti che a Indianapolis vengono soprattutto per le corse d’auto».

In Italia, su questo fronte, sembra che si osi ancora un po’ troppo poco. «Qualche esperimento di mediazione museale esiste – dice Silvia -: credo che in Italia, per certi versi, il turismo invece che una risorsa è un handicap all’innovazione. Agli Uffizi, in qualsiasi momento dell’anno si vada, ci sono turisti, perché cambiare? Inoltre un altro freno è sicuramente la burocrazia e i finanziamenti statali. In America la maggior parte dei musei ha pochi finanziamenti statali e deve in qualche modo trovare mecenati, attirare il pubblico, investire. Questo forse spinge a sperimentare di più». La prossima tappa per Silvia? «Per ora vorrei stare ancora un po’ qui a Indianapolis – dice – ma la prima volta che verrò a Bergamo farò un salto alla Carrara».

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