2 giugno e l’Italia
dalla schiena dritta

Si fa presto a dire democrazia, libertà, benessere come fossero doni pretesi e serviti su una tavola già apparecchiata. La Festa della Repubblica (il referendum del 2 giugno ‘46 sulla forma di Stato e in contemporanea l’elezione della Costituente per la stesura della Costituzione del ’48) è fatta per ricordarci chi siamo e da dove veniamo, nel tempo delle cittadinanze plurime: italiana ed europea. Specie oggi alla vigilia di un nuovo ciclo politico e istituzionale che chiude con la fase inaugurata dal big bang degli anni ’90.

Quel «miracolo della ragione», come l’aveva chiamato il costituente Piero Calamandrei, insieme alla Costituzione è stato l’inizio di una costruzione di speranze collettive, l’accordo alto – pur al prezzo di qualche ambiguità – tra partiti divisi da profonde faglie ideologiche per fondare una nuova convivenza civile. Fra successi e insuccessi, tragedie di popolo e conquiste sociali, non è affatto una vicenda passata invano.

Siamo ancora in viaggio, con una transizione che si protrae all’infinito e di cui conosciamo il punto di partenza, ma non l’approdo. Non sappiamo ancora, a ben vedere, se siamo tuttora dentro i confini della Prima Repubblica (la Repubblica dei partiti), se effettivamente siamo transitati per oltre 20 anni nella Seconda (quella pop e dell’alternanza maggioritaria) o se stiamo per entrare in una improbabile e vintage Terza (ritorno al proporzionale).

La Repubblica è stata realizzata dai partiti di massa, che hanno consentito l’ingresso dei ceti popolari nelle istituzioni, e ha concluso, sfinita, la sua prima fase ribellandosi a quegli stessi partiti. Da allora viviamo in una terra ibrida e in movimento verso una meta indefinita, che frequentiamo con la curiosità di considerarla incognita o con il cattivo umore di averla già vista: fate voi. Gli italiani, in una realtà dalle tinte scialbe, sono insoddisfatti anche perché più divisi, rancorosi e meno partecipi di un destino comune. In realtà la vicenda repubblicana dice che sono venuti meno numerosi elementi che tenevano distanti i cittadini: «Proprio durante i primi decenni della storia repubblicana – ha scritto lo storico Agostino Giovagnoli – s’è compiuta una unificazione – culturale, sociale, amministrativa –­ mai realizzata in precedenza». Negli anni ’90 ci si chiedeva se l’Italia, fra strappi territoriali e revisionismi storici, stesse finendo come nazione e due decenni prima ci si era interrogati sulla tenuta democratica dinanzi alla strategia della tensione e al terrorismo: il Paese, nonostante tutto, ha retto con gli strumenti dello Stato di diritto. Si discute da sempre sul deficit di coscienza civile degli italiani e sulla fantasia opaca dell’arte di arrangiarsi, ma questo non ha impedito una coralità popolare più profonda delle apparenze, tale almeno da arginare una tendenza in libera uscita: l’indisponibilità dei cittadini a scambiare libertà con solidarietà.

Nel 1910 il giovane intellettuale Giuseppe Prezzolini scriveva che «la democrazia presente non contenta più gli animi degli onesti, essa non rappresenta ormai che un abbassamento d’ogni limite». Qualche eco di quella deriva rimane nell’orecchio di oggi, salvo ricordare che istituzioni deboli e cultura antiparlamentare hanno preparato il terreno al fascismo. È toccato ad un italiano dalla schiena dritta, Carlo Azeglio Ciampi, durante il settennato al Quirinale (1999-2006), rintracciare un filo discorsivo fra le tante Italie di ieri e di oggi nel segno di una pedagogia civile e di una concordia repubblicana, la stessa della ricostruzione postbellica. In un Paese attraversato da nuove fratture e con le linee di comunicazione interrotte, Ciampi aveva cercato di rifondare un orgoglioso «patriottismo repubblicano» nella coscienza collettiva legando Risorgimento, Resistenza e Costituzione: a partire dalle date fondative come quella del 2 giugno. A dispetto di un Paese legale che rumoreggiava dalla parte opposta, c’era il sentire di un’Italia profonda, consapevole che la fiducia nel futuro è alimentata dalla memoria condivisa del proprio passato. E che il destino di ognuno è nelle mani di tutti, nella riaffermazione delle ragioni dello stare insieme, nell’etica del cittadino attivo: non si danno diritti senza doveri, come recita la Costituzione.

Lo storico Ernesto Galli della Loggia, nel suo ultimo libro in cui affronta passato e presente, scrive in modo sconfortato che «è difficile non disperare». Eppure la storia non è determinata e lo stesso scorrere dell’Italia repubblicana non ha mai smesso di sorprendere. Nel bene e nel male.

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