Campagna per l’Ue
Un’Italia minima

Una brutta campagna elettorale in Italia per le Europee, mentre altrove si comincia a contare le vittime. Fuori combattimento Theresa May, la leader di gomma della pur celebrata democrazia britannica. In Austria lo scandalo che chiama in causa presunti rapporti sottobanco con la Russia ha travolto l’estrema destra al governo con la destra moderata. Un anno fa, nell’insediarsi a Palazzo Chigi, il premier Conte parlava della necessità di un supplemento di responsabilità. L’atteso ospite non è pervenuto.

La prima metà della maratona elettorale s’è consumata attorno alle dimissioni del sottosegretario Siri, la seconda metà nella resa dei conti fra i due soci di maggioranza. Questioni di cucina, di bottega. Un tiro al bersaglio, tutti contro tutti. Quello che doveva essere un referendum sul futuro dell’Europa si risolverà in un referendum su Salvini e Di Maio. L’Italia sovranista s’è rivelata tale: piccola patria provinciale.

Il voto per l’Europarlamento è sempre stato così, tuttavia era lecito attendersi il colpo d’ala, considerando almeno la posta in gioco. Una prova di maturità non riuscita, un’occasione persa.

L’agenda Europa, il volare oltre le miserie umane e le pochezze quotidiane, non si sono visti, se non di straforo: vuoi per i proibitivi tecnicismi dell’Ue, vuoi perché l’argomento comunque non fa cassetta, vuoi infine per manifesta intenzionalità. Delle acrobatiche giravolte dei grillini in materia, s’è perso il filo. Di Salvini, sappiamo come la pensa. Ma da entrambi, ripiegati sulle reciproche ripicche, e che pure devono le loro fortune al gioco delle emozioni, non è uscito nulla che abbia colpito l’immaginario collettivo.

Qualcuno ha sentito dire qualcosa dal premier? Cosa ci ha detto questa campagna elettorale del tempo reale che viviamo, dell’Italia che produce nel mondo e che ha bisogno dello spazio comunitario europeo per continuare a imporsi? Poco o niente, a meno che non si voglia pensare che i produttori del Nord intendano fare affari con i sudditi ungheresi di Orban e non con i tedeschi della signora Merkel. Ne è uscita un’Italia minima, che non rappresenta più nulla di quel che era e di quel che è, neppure in grado di dar voce all’italianità vera: del lavoro e del capitale. La Lega di rito salviniano di quale Paese reale è portavoce, quale pezzo interpreta di un’Italia che è la seconda manifattura europea? L’incauta spensieratezza di chi ci governa s’accoppia alla nuova estetica elettorale in cui sta tramontando il rapporto fisico elettori-candidati, svuotando di senso le preferenze. È un altro aspetto della declinante democrazia rappresentativa: chi li ha visti i candidati? Un dibattito spostato verso l’altrove genera candidati non riconoscibili, salvo ritrovare nomi e facce sui social, nella trappola del virtuale. Scomparso anche il duello televisivo, formula centrale, riaffermata ovunque ma non in Italia. Una doppia anomalia: leader che si vorrebbero machisti e che invece non si misurano in modo diretto con gli avversari, in fuga dal dovere civico di trasparenza. Tribuni che dopo aver accarezzato il popolo se ne sottraggono: paradossale, non vi pare?

Qualche responsabilità, pur minore, alloggia anche nel partito che non c’è, cioè nelle opposizioni: questione di scheletri nell’armadio. Berlusconi, per la prima volta dal ’94, vola basso, per giunta nell’inedito format europeista. Da un lato recita il ruolo del coniuge tradito da Salvini, dall’altro è già andato a sbattere sulla proposta di alleanza fra popolari e sovranisti. La crisi in Austria parla soprattutto al Cav, perché dice del flop fra le due destre: i sovranisti non si lasciano normalizzare e non sono un coperchio per tutte le pentole. Il Pd postrenziano di Zingaretti s’è speso più di altri ma, nel restare spiazzato dalla competizione a sinistra imposta dai grillini, non ha trovato né uno slogan né una visione politica forti. Nessun tema dei dem è riuscito a imporsi e lo stesso attivismo di Calenda non è uscito dal perimetro del Pd. La leadership di Zingaretti, per quanto inclusiva e tesa a ricompattare i riformisti, si sta rivelando una debole alternativa: non graffia, non va a segno, può toccare la ragione ma non il cuore. Per l’Italia kitsch dei pifferai della sfiducia, per un governo gonfio di rancori e per un Paese dal nervosismo accelerato, vale quel che Claudio Magris ha scritto sul «Corriere»: «Uno sconcio Luna Park». Per l’Ue resta il quesito posto a tutti da Papa Francesco: che cosa ti è successo, Europa?

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