Dignità del lavoro
l’impegno dei cattolici

L’idea è buona, anzi ottima. L’Europa dovrebbe rivedere i Trattati e scrivere un nuovo Articolo 1 e poi inchiodarlo sulle porte di ogni istituzione: «L’Europa è fondata sul lavoro». La proposta l’hanno fatta i mille delegati della Settimana sociale e l’hanno consegnata al presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani: proposta decisiva, intuizione cruciale. Ma non è facile e rischia di restare un sogno in Paesi che hanno scelto la flessibilità come pensiero unico per salvare il lavoro. Ma quale lavoro? È sulla risposta

a questa domanda che i cattolici si sono interrogati a Cagliari e hanno cercato di offrire qualche prospettiva. Ha ragione il sociologo Mauro Magatti, che a Cagliari ha tenuto una delle relazioni più significative, che il lavoro è buono se genera qualche altra cosa che non sia solo i consumi. Perché il consumismo fa scattare inevitabilmente l’individualismo, si vuole sempre di più e sempre di più per se stessi. Esattamente il contrario di quanto è accaduto in Italia nel dopoguerra, quando è stata la passione a generare futuro e a governare le politiche del lavoro.Insomma la ricchezza non è stata creata solo per sé e per i propri cari, ma per il Paese ed è riuscita ad intrecciare ragionamenti virtuosi sul senso di una comunità nazionale. Poi molto è crollato in quei fastidiosi anni Ottanta sotto il maglio dello slogan sulla «Milano da bere», esempio di ciò che non andava neppure pensato, semantica di un binomio perverso, dove tutto si poteva ottenere e consumare in un batter d’occhi o in un sorso, in nome della libertà di scelta e della libertà d’impresa, che ha prodotto una cultura, anzi «la cultura» che ha rovinato il Paese e dalla quale sono derivati alcuni dei maggiori mali che oggi dobbiamo affrontare, dalla denatalità alle diseguaglianze e alla fine alla povertà.

Il lavoro come fatica e peso specifico primario della ricchezza prodotta è sparito a favore della rendita, del gioco della finanza e di tutto ciò che si trascina dietro: corruzione e potere delle lobby. Abbiamo tradito lo spirito dell’articolo uno della Costituzione. Eppure è stato quello a far ripartire l’Italia nel dopoguerra. Erano tutti d’accordo sul lavoro: cattolici, socialisti e liberali. Anche se ognuno aveva una sua idea di mercato e di Stato, il lavoro era l’ingrediente in grado di rendere la pasta più buona, più resistente, più colma di futuro. Il lavoro generava il Paese. Oggi il lavoro genera preoccupazione, per chi ce l’ha, perché di solito è precario, e per chi non ce l’ha perché gli manca. Ma genera preoccupazione anche in chi dovrebbe offrirlo, perché è stata sbaragliata quella che un tempo si chiamava responsabilità di impresa.

Il Papa ha fatto bene a ricordare che il lavoratore non è un rigo nel bilancio. Eppure oggi è così perché piuttosto che proteggere il lavoro, cioè occuparsi insieme della fiducia attorno all’impresa, ad un territorio e alle persone che vi abitano, sembra che convenga occuparsi dello sfruttamento dell’impresa, del territorio e delle persone. Abbiamo autorizzato ogni creatività normativa, ogni capriola economica e finanziaria, ogni illusione sulla tenuta di territori sempre più fragili. Abbiamo perso il senso della comunità, anche di comunità di lavoro, abbiamo seppellito maestri e profeti inquieti, gente che metteva in guardia da culture effimere dove il lavoro svaniva e il posto era preso da altri cosiddetti valori. L’art.1 della Costituzione considera il lavoro un valore e non uno strumento per ingrossare il portafoglio. Lo considera un servizio all’intera comunità, alla Repubblica, allo Stato. Non l’idea bislacca del fare per fare, che alla fine, come denuncia fino allo sfinimento Papa Francesco, produce scarti di uomini e di cose. Ma l’idea che insieme con il lavoro di ognuno si può crescere in mondo armonico, senza lasciar indietro nessuno, senza far sparire le persone nelle pieghe della flessibilità feroce e brutale. Perché è solo con il lavoro stabile e degno che si può, al contempo, prendersi cura di tutto il resto che ci permette di essere una comunità. I cattolici da Cagliari hanno fatto all’Europa il migliore dono possibile.

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