E adesso si apre
una fase al buio

Il No ha vinto alla grande quasi ovunque, e al di là di ogni previsione, Renzi oggi si dimette e si conclude dopo mille giorni l’esperienza del suo governo. Si chiude un ciclo, termina in modo traumatico e sull’onda anche di un certo risentimento il renzismo che, nel bene e nel male, ha rappresentato una formula politica fuori dagli schemi. È stato battuto l’uomo che corre e che compete in modo spavaldo: fino a ieri aveva in se stesso il principale nemico e oggi ha contro pure la maggioranza degli elettori.

Il tutto nel giorno in cui l’Europa tira un sospiro di sollievo con la sconfitta del candidato dell’estrema destra alle presidenziali in Austria, mentre il tracollo del centrosinistra sul referendum costituzionale parla di un quasi disastro collettivo per la sinistra di governo in Europa: dalla Francia all’Inghilterra, dalla Germania alla Spagna. Dall’America all’Europa tira un vento di nuova destra ibrida, comunque variamente definibile per convenzione: populista e anti establishment. Perché la vittoria «straordinariamente netta», come l’ha chiamata lo stesso Renzi, è in prima battuta una spallata di Grillo e, per rimando, di Salvini. Nel centrodestra Berlusconi, che aveva fatto saltare il banco delle riforme costituzionali dopo l’elezione di Mattarella, avrà i suoi problemi, ma il faro oggi è sul Pd. Renzi, dopo la «buona battaglia», s’è assunto in modo chiaro tutte le responsabilità e in effetti l’origine dei guai parte dal suo temperamento: è una sconfitta personale e politica del premier e leader dem, titolare di una condotta sbagliata nel metodo, nella personalizzazione e nella politicizzazione del referendum. Un uomo solo al comando contro tutti, che ha dilapidato il patrimonio elettorale delle europee, smettendo di parlare a tutto il Paese e indisponibile a considerare il Pd come una comunità plurale. Un errore ripagato con ugual moneta dai suoi avversari e del resto l’alta affluenza equivale ad un plebiscito politico, a conferma di una regola storica: non c’è partita fra populismo istituzionale e quello di piazza, dato che l’originale gode di un vantaggio competitivo rispetto alla copia. Renzi, nell’annunciare l’uscita di scena, ha detto due cose importanti.

La prima, appunto, è che la disfatta è tutta sua: questo è vero, ma non del tutto, in quanto riguarda tutto il suo partito. Anche l’area bersaniana ha le sue colpe: la porzione dell’opposizione interna dem, la sinistra-sinistra e i venerati professori potranno certo formalmente cantare vittoria ma, nell’impatto sull’opinione pubblica, sono condannati a scomparire dinanzi allo sfondamento operato da Grillo e Salvini. La seconda riguarda gli oneri e gli onori che toccano ai vincitori, perché si apre una stagione al buio: qui si misurerà la capacità di recupero dell’equilibrio e del senso di misura da parte di famiglie politiche poco allenate a costruire. Entriamo in una fase dalle tante variabili e dalle mille incognite, sapendo che adesso entra in gioco Mattarella, un presidente che sa benissimo quel che gli compete e che non ama essere tirato per la giacchetta. Viviamo una fase confusa, un’infinita transizione del sistema politico verso un approdo destinato ad allontanarsi. Con una serie di incognite interne ed esterne: la manovra finanziaria da votare e che deve passare l’esame europeo, l’imprevedibilità dei mercati finanziari, le varie rese di conti da mettere nell’agenda dei partiti, le prospettive del dopo-Renzi, l’Italicum da reinventare, le elezioni anticipate o meno, la stabilità a rischio e soprattutto un Paese rancoroso e da riconciliare.

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