Italiani, arriva
il salasso di giugno

Come sempre la Cgia di Giuseppe Bertolussi, l’associazione degli artigiani e delle piccole e medie imprese di Mestre, ci ricorda in che Stato viviamo. Ormai ci siamo abituati ai suoi suggestivi «report» settimanali, diffusi al sabato, come tradizione, per essere presenti nei tg serali e sui giornali domenicali, forse perché c’è un lettore più attento. L’ultimo report riguarda il «fronte del fisco».

E l’autentico salasso cui sono chiamati a versare all’Erario gli italiani, a giugno, a vario titolo: 56 miliardi di tasse. La notizia, tra l’altro, arriva il giorno dopo in cui il ministro dell’Economia dichiara dal G7 di Dresda che il governo introdurrà nella prossima legge di stabilità misure per la detassazione del lavoro. Sarà, ma intanto dovremo arrabattarci tra Imu sulla casa, Tasi (la tassa sui servizi comunali indivisibili che pagano cittadini e imprese), Irpef, addizionali sulle persone fisiche, Irap (per le imprese), Iva (per i prodotti) e Tari (la tassa sui rifiuti). Altri 33,6 miliardi sono attesi con la scadenza del 16 luglio (tra Irpef, addizionali, Ires, Irap e Iva: in tutto quasi 90 miliardi).

In termini assoluti, l’imposta che graverà maggiormente sui bilanci delle aziende italiane sarà l’Ires (l’Imposta sui redditi delle società di capitali): secondo i calcoli effettuati dalla Cgia, porterà nelle casse dello Stato 10,5 miliardi di euro. Ma c’è anche il versamento delle ritenute Irpef da 10,4 miliardi di euro circa. Per le famiglie, invece, l’impegno economico più oneroso sarà il pagamento della prima rata della Tasi: dei 2,3 miliardi di euro attesi dai Comuni, i proprietari delle abitazioni principali dovranno versare circa 1,65 miliardi di euro.

Cosa ci dicono questi dati? Che lo Stato, per cercare di «alleviare» il peso delle tasse, che è il più alto d’Europa (ormai abbiamo superato il primato dei Paesi scandinavi, peraltro senza mai minimamente sfiorarne il livello dei servizi di Welfare) ce li distribuisce attraverso un’infinità di sigle, «spillandoci» il denaro in ordine sparso. Il caso più eclatante è il gioco delle parti tra Stato ed enti locali, che si traduce nelle addizionali Irpef: il governo centrale taglia i trasferimenti e i Comuni si rifanno sui cittadini per non tagliare i servizi. Lo Stato dà prova di virtuosismo e i Comuni piangono dicendo che sono costretti ad aumentare le addizionali per garantire le prestazioni della pubblica amministrazione locale.

Senza contare che questa distribuzione di sigle e di prelievi, questa sciarada di sigle che ci salassano a vario titolo ovviamente richiede, oltre che denaro, anche molto tempo a disposizione. Sempre la Cgia, un paio di mesi fa, aveva diffuso uno studio in cui risultava che tra le code agli sportelli, il tempo perso per recarsi dal commercialista o per compilare moduli, registri e scartoffie varie, i contribuenti italiani impiegano 269 ore all’anno per poter pagare le tasse. Ben 33 giorni lavorativi: in Europa solo i poveri portoghesi percorrono una corsa ad ostacoli più «pesante» della nostra. Ma se pensiamo che in Lussemburgo il tempo consacrato al fisco è di sole 55 ore all’anno, in Irlanda 80 e in Finlandia 93, e che il dato medio dell’area dell’euro è pari a 165 ore, meno di una settimana, c’è davvero di che riflettere. Lo Stato si prende il nostro tempo, che come dice l’antico adagio è denaro, e in fondo anche il denaro, che in economia è pur sempre tempo (provate a chiedere un prestito a una banca).

Alla fine noi italiani, gli abitanti del Paese delle sigle fiscali, finiamo per lavorare per le imposte 161 – dicasi 161 – giorni, in pratica dal primo di gennaio fino a metà giugno, cui dobbiamo aggiungere un mese di «ferie fiscali». Coraggio, consoliamoci: luglio è vicino.

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