L’Isis arriva in Libia
Allarme rosso in Europa

I tagliatori di teste sono arrivati in Cirenaica, l’Isis è ormai stabilmente installata a Derna, sta ottenendo l’adesione di altre organizzazioni jihadiste libiche e il suo grande capo Al Baghdadi, che si presumeva ferito in un letto d’ospedale, annuncia in un radiomessaggio che «la marcia dei mujaheddin proseguirà fino a quando non raggiungerà Roma». Ce n’è abbastanza perché l’Italia, unica nazione ad avere ancora un’ambasciata a Tripoli e cui l’Occidente ha affidato una specie di supervisione sulle vicende libiche, si affretti a studiare delle concrete contromisure.

Non possiamo permettere che l’ex «Quarta sponda», a poche centinaia di chilometri dalla Sicilia, diventi una specie di protettorato del Califfato: le conseguenze sarebbero drammatiche, sia per i rifornimenti di petrolio e di gas, sia perché i barconi dei profughi che continuano a partire dalle sue sponde si trasformerebbero in altrettanti veicoli per l’ingresso di terroristi nel nostro Paese.

La velocità con cui l’Isis sta avanzando è dovuta al fatto che la Libia è ormai uno Stato fallito. Da quando, imprudentemente, abbiamo abbattuto Gheddafi senza provvedere al dopo, la situazione è continuamente peggiorata, diventando insieme tragica e surreale. Oggi il Paese ha due governi, uno presieduto dal laico Abdullah al Thimi riconosciuto dall’Occidente, ma costretto a rifugiarsi a Tobruk e Baida perché l’altro, espressione del movimento islamista, si è impadronito di Tripoli con l’aiuto di alcune milizie, tra cui quella, molto efficiente, di Misurata. In molte località, della costa e dell’interno, l’autorità è in realtà nelle mani di altre milizie, di origine tribale, che cambiano campo a seconda della convenienza. Un ex ufficiale di Gheddafi, il generale Hefter, è comparso sulla scena due mesi con l’intenzione di sconfiggere gli islamisti e ripristinare, con l’aiuto di Egitto ed Emirati, un po’ di ordine, ma per adesso è riuscito a stabilire solo un precario controllo su Benghasi e la Cirenaica. Gli islamisti, a loro volta aiutati da Qatar e Turchia, restano saldamente in controllo della capitale.

L’unica cosa che unisce le due fazioni è la consapevolezza che bisogna mantenere il flusso del petrolio, che infatti è sorprendentemente risalito nelle ultime settimane da 250 mila a 900 mila barili al giorno (metà della produzione dell’era Gheddafi, ma sempre sufficiente ad alimentare le casse dei due contendenti). Senza il ricavato della vendita degli idrocarburi, non ci sarebbero infatti i fondi per pagare gli stipendi al milione e 700 mila dipendenti statali, che a seconda di dove sono dislocati dipendono o dall’una o dall’altra. In pratica, la National Oil Corporation e la Banca Centrale sono rimaste le sole istituzioni unitarie che ancora funzionano, e i ministri del petrolio dei due governi rivali sono gli unici a collaborare.

Con l’arrivo massiccio dell’Isis, anche questo ultimo frammento di unità potrebbe saltare, e la guerra civile fin qui rimasta latente scoppierebbe in breve tempo. Ben otto mediatori di diverse organizzazioni hanno cercato di avviare un dialogo tra le fazioni, ma senza alcun risultato. Secondo la maggioranza degli osservatori, l’unica soluzione sarebbe un intervento militare di peacekeeping, ma questo non riceverebbe mai l’avallo dell’Onu a causa del veto della Russia in Consiglio di sicurezza dell’Onu. Poiché gli Stati Uniti hanno già fatto sapere di non avere alcuna intenzione di lasciarsi invischiare in un nuovo confitto, Rimane solo la possibilità di una forza europea, come la Francia va suggerendo fin da settembre e che anche in Italia ha il suo seguito. Ma sarà la politica estera europea, ora a guida italiana, all’altezza di organizzare e gestire una missione del genere?

© RIPRODUZIONE RISERVATA