Musei & turismo
sfida senza confini

La polemica scatenatasi contro le scelte operate dal ministro dei Beni culturali per le nomine dei direttori dei maggiori musei italiani ha due pecche: è pretestuosa rispetto al metodo utilizzato e angusta nella rivendicazione – di sapore tristemente autarchico – che tali posti venissero riservati a funzionari italiani.

I due piani (metodo e merito) si intersecano anche se originano da due distinti piani. Uno di natura politico/istituzionale, l’altro riguardante la qualità dei servizi museali. Il ministro Franceschini ha nominato i direttori di 20 importanti musei

sulla base di una specifica norma contenuta nella legge di riforma dello scorso anno, nella quale si prevedeva una maggiore autonomia di tali strutture culturali rispetto alle sovrintendenze regionali del ministero. Aver operato delle scelte era, dunque, per il ministro, un diritto/dovere, perché derivava da un indirizzo fissato in una legge dello Stato da attuare come esercizio della potestà politico/amministrativa per l’esecuzione di regole approvate dal Parlamento. Inoltre, tale norma è strettamente coerente con l’assorbimento, nel ministero dei Beni culturali, delle funzioni di promozione del turismo.

Dell’importanza di tale cambiamento – che segna una svolta radicale sia nelle funzioni di quel dicastero, sia nel raccordo tra patrimonio culturale e attività turistica – pochi sembrano essersi accorti. Esso può rappresentare, a ben vedere, la chiave di volta per coniugare le politiche di promozione delle potenzialità turistiche con la valorizzazione dell’ineguagliabile ricchezza di beni artistici del quale dispone il Paese.

Procedere sulla strada dell’autonomia dei musei di maggiore rilievo è uno dei tasselli di un articolato puzzle che può consentire un salto in avanti sul piano della qualità e sul piano economico della fruizione del patrimonio culturale del Paese. Sotto questo profilo il superamento della ferrea gerarchia territoriale, in base alla quale musei di rilievo mondiale (come gli Uffizi o Brera, per fare soltanto due esempi) dovevano dipendere dalle sovrintendenze regionali del ministero dei Beni culturali, è un fatto assolutamente innovativo. Sia perché spezza la logica, di derivazione napoleonica, dell’indispensabile uniformità amministrativa, sia perché consente quel margine di elasticità necessaria alla funzionalità dei musei pubblici. In tale contesto il ricambio nella direzione dei più importanti musei italiani è un segnale anche di una svolta nella concezione stessa della gestione del patrimonio culturale italiano. Storicamente (e per antica vocazione) le funzioni di tutela e di conservazione dei beni culturali hanno sopravanzato di gran lunga l’attenzione alla loro valorizzazione. Tale sbilanciamento ne ha, di fatto, penalizzato le possibilità di effettiva fruizione. Il che spiega anche la non eccelsa posizione dei musei italiani, nella classifica dei visitatori, rispetto ad altre istituzioni museali estere.

Difficoltà enfatizzate, occorre non dimenticarlo, dalla complessiva deficienza dell’offerta turistica. Al riguardo i casi di Napoli (che ha il maggiore museo archeologico del mondo) e di Reggio Calabria (città nella quale sono ospitati i bronzi di Riace) sono esemplari.

Il cambio di passo obbligato consiste proprio nel fare della tutela e della conservazione lo zoccolo duro della valorizzazione. Rendere i musei italiani un punto di forza di una rinnovata attività di sviluppo territoriale è un obiettivo ambizioso e di non facile realizzazione. Che, per tale fine, il ministro abbia scelto in alcuni casi direttori stranieri non può essere considerato un fatto che mortifica i funzionari italiani. Di ieri la notizia che nei prossimi mesi ci sarà la nomina per gli altri musei italiani. È un fatto importante: tutti i direttori nominati dovranno essere giudicati per i risultati che riusciranno a raggiungere. E il ministro e il governo saranno giudicati dagli italiani per le scelte che avranno compiuto.

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