Papa Francesco
Leader senza ombre

D’accordo, è una battuta. Ma sbagliamo di molto se diciamo che Papa Francesco ha insegnato all’Onu a fare l’Onu? A modo suo: con lo stile dialogante e pieno di «tenerezza» che gli è proprio, ma che non è mai disgiunto dalla fermezza dettata dalla fede e dal realismo di chi ha uno sguardo ampio e non egoistico sulle cose del mondo.

Come giudicare altrimenti il quinto discorso (dopo quelli di Paolo VI nel 1965, Giovanni Paolo II nel 1979 e nel 1995, Benedetto XVI nel 2008) di un Papa alle Nazioni Unite? Impossibile non pensare all’Iraq o alla Libia quando Francesco ha detto che «non mancano gravi prove delle conseguenze negative di interventi politici e militari non coordinati tra i membri della comunità internazionale»? Impossibile non riflettere sulle infinite impotenze dell’Onu, ascoltandolo dire che «il compito delle Nazioni Unite… può essere visto come lo sviluppo e la promozione della sovranità del diritto»? Impossibile non valutare gli effetti dello strapotere dei soliti noti quando l’aula lo ha sentito chiedere «maggiore equità (tra i diversi Paesi, ndr)… in special modo per gli organi con effettiva capacità esecutiva, quali il Consiglio di Sicurezza, gli organismi finanziari, i gruppi creati per affrontare le crisi economiche»?

Il discorso di papa Francesco all’Onu ha confermato che la Chiesa cattolica è, oggi, una delle rare istituzioni ad avere una visione, un’idea del mondo fatta per unire le nazioni e non per dividerle. D’altra parte il Pontefice è arrivato negli Stati Uniti da Cuba, Paesi che lo hanno ringraziato per il ruolo decisivo svolto per la loro riappacificazione. E all’inizio del viaggio era arrivata la notizia che il Governo della Colombia e le Farc (Forze armate rivoluzionarie di Colombia), dopo 50 anni di guerriglia e decine di migliaia di morti, avevano trovato una via per la pace, anche qui con la mediazione della Chiesa, della Comunità di Sant’Egidio e la spinta dello stesso Francesco.

E ancor prima, il provvidenziale no all’escalation militare in Siria, che avrebbe ancor più agevolato l’Isis e le altre bande del terrorismo islamico. La missione di pace in Israele e Palestina, con i semi di un nuovo atteggiamento poi dispersi dall’assassinio dei tre ragazzi israeliani e dalla guerra a Gaza. Lo stesso viaggio in Turchia, che ha restituito dignità al genocidio degli armeni e gettato nuova luce sugli altri genocidi contro i cristiani.

Questo avviene perché la Chiesa non costruisce muri ma getta ponti. E lo fa avendo in mente un’unica realtà, quella che Papa Francesco ha descritto all’Onu con parole forti e chiare: «L’azione politica ed economica è efficace solo quando è concepita come un’attività prudenziale, guidata da un concetto perenne di giustizia e che tiene sempre presente che, prima e al di là di piani e programmi, ci sono donne e uomini concreti, uguali ai governanti, che vivono lottano e soffrono». Al di fuori dell’uomo come fine c’è «l’esercizio burocratico di redigere lunghe enumerazioni di buoni propositi» (vero Onu?) e l’oppressione economica, militare, ambientale, del più forte sul più debole (vero tutti?).

È molto probabile che questa Chiesa, in questo campo, ci riservi altre sorprese. In Medio Oriente, magari, dove le comunità cristiane sono minoritarie ma fondamentali perché fanno da collante alle società in cui vivono e dove infatti il tracollo comincia proprio con l’oppressione di cui tali comunità sono vittime. E questo può accadere perché la Chiesa ha anche la ventura di avere una guida unica. Non c’è nessun leader, oggi, sul pianeta, al quale sia possibile guardare convinti di averlo sempre e solo dalla parte della giustizia, del bene comune, della pace senza speculazioni. Nessuno tranne Papa Francesco.

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