Salvare il lavoro
tassando i robot?

Nella periferia della cittadina di Talcott, West Virginia, in prossimità di un tunnel ferroviario ora dismesso, si trova un monumento che celebra le gesta di John Henry. Sulla targa del basamento si legge che, durante i lavori di scavo del tunnel nel 1870, John, un possente operaio afro-americano assunto per praticare fori nella ‎roccia per la dinamite, vinse un’epica sfida contro una nuovissima perforatrice ‎meccanica a vapore, morendo tuttavia di sfinimento per l’enorme sforzo.‎ Perché il monumento? E perché ancora oggi si celebra in America il mito di John Henry?

Forse perché, sebbene la competizione tra gli uomini e le macchine abbia origine nelle rivolte degli operai inglesi d’inizio Ottocento, il confronto sociale è ancora alimentato dall’inquietudine per la cancellazione del lavoro manifatturiero, e ora anche intellettuale. Eppure la diffusione delle tecnologie ha generato negli ultimi due secoli uno straordinario miglioramento delle condizioni di lavoro, creando nuovi settori economici e un saldo positivo di occupazione. La forza lavoro è stata progressivamente riallocata dall’agricoltura all’industria, poi ai servizi, all’informatica, alla comunicazione globale. Tuttavia è oramai prossima una nuova trasformazione del lavoro per effetto degli avanzamenti nella robotica, nell’intelligenza artificiale e nei big data. Nel corso del prossimo decennio nessun settore economico sarà più lo stesso, dalla manifattura, per la quale oggi si scorgono i prodromi nei temi dell’Industria 4.0, alla mobilità, ai servizi bancari e finanziari, agli affari legali, all’istruzione, al giornalismo. E così, come ai tempi di John Henry, in una crescente competizione tra gli uomini e le tecnologie per contendersi il lavoro, aumenta la preoccupazione per il futuro del lavoro e dei salari.

Il più recente studio sul tema è stato pubblicato nei giorni scorsi da due ricercatori americani, Daron Acemoglu del Mit e Pascual Restrepo dell’Università di Boston. Lo studio si basa su elaborazioni di dati reali e pone evidenze scientifiche sul calo di occupazione legata alla diffusione dei robot industriali nell’industria americana: ogni robot nella manifattura ha ridotto l’occupazione fino a 6 addetti ogni 1.000 persone occupate e i salari medi fino allo 0,75%. I dati corrispondono a una riduzione di 670.000 posti di lavoro negli Stati Uniti tra il 1990 e il 2007. La riduzione accelererà sensibilmente all’aumentare della diffusione dei robot industriali, stimati in 5 nuove unità ogni 1.000 addetti entro il 2025, con alcuni milioni di posti di lavoro a rischio.È pur vero che, durante tutte le trasformazioni tecnologiche precedenti, alla scomparsa di alcune mansioni ha sempre fatto riscontro la creazione di nuovi posti di lavoro, migliori e più qualificati. A una diminuzione di operai in fonderia alla Dalmine è corrisposto un aumento d’ingegneri per governare i sistemi automatici di controllo, oltre a nuova occupazione nel software, nell’automazione industriale, nella produzione dell’energia. La diffusione graduale dei nuovi sistemi ha consentito il progressivo adeguamento della manodopera ai nuovi bisogni. Tuttavia l’attuale accelerazione tecnologica, robot e intelligenza artificiale in primis, pare essere così rapida da non garantire il tempo per terminare il percorso lavorativo, andare in pensione ed essere via via sostituiti da persone con nuove e diverse competenze. Pare difficile, ad esempio, che un cinquantenne addetto alla produzione industriale possa nel breve periodo specializzarsi nella cura della persona, una delle professioni in crescita per effetto dell’invecchiamento demografico.

Che fare? La società deve tenere conto «di quel lavoro che non può dimenticarsi dei lavoratori, che non li scarta quando non sono più produttivi», per usare una bella espressione ascoltata nei giorni scorsi nel convegno diocesano sul lavoro. Potremmo tentare di mitigare il problema con una politica di ridistribuzione? Alcuni economisti sostengono che i governi dovrebbero introdurre un reddito minimo universale. Bill Gates ha recentemente offerto un diverso suggerimento: tassare il reddito dei robot al pari del reddito degli operai che vanno a sostituire, destinando i proventi al sostegno di altri lavoratori. La questione sostanziale riguarda a chi andranno i vantaggi di produttività ottenuti con le nuove tecnologie. Dovrà essere premiato chi investe intelligenza e capitali in automazione avanzata? Oppure dovrà essere creata una rete di solidarietà per chi è rimasto disoccupato dopo una vita di lavoro? E come garantire che tutte le categorie sociali abbiano un ritorno da un progresso che, in fondo, è connesso all’intelligenza e all’operosità dell’umanità intera?

Tassare le tecnologie potrebbe frenarne la diffusione: saggiamente nessuno ha immaginato trent’anni fa di tassare l’adozione dei personal computer e di Internet. Alcuni sostengono, non a torto, che non vadano tassate le tecnologie ma le grandi società hi-tech, Apple, Amazon, Facebook, Google, che beneficiano di generose politiche fiscali, impensabili per qualunque singolo lavoratore. Siamo lontani dal trovare una soluzione, ma intanto possiamo iniziare da subito a studiare come rivedere le politiche della formazione e del lavoro, per aiutarci a gestire una trasformazione tecnologica che potrebbe gravare sulla dignità di milioni di persone per un’intera generazione.

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