Se il Papa cancella
la parola clandestino

Domenica scorsa, intervenendo a un affollatissimo incontro ad Expo, il leader degli U2 Bono, ha sostenuto che «è sbagliato usare la parola migranti. La parola giusta è rifugiati». Spiegava la rockstar che chi sta arrivando in Europa non lascia le proprie case perché sceglie di vivere in Italia o in Irlanda.

Al contrario queste persone lasciano il proprio Paese perché non hanno casa. Dunque non sono migranti, ma rifugiati, cioè gente che cerca un «rifugio» per la propria vita. La distinzione può sembrare solo una sottigliezza linguistica.

Invece spesso è importante ragionare sulle parole che si usano per definire aspetti così delicati della realtà. Le parole fotografano infatti un atteggiamento e anche una visione delle cose. Ad esempio, per quanto riguarda il fenomeno di cui stiamo parlando, c’è una parola che sembra essere stata archiviata: è la parola «clandestini». Come ricorderete questa terminologia era stata introdotta dalla legge Bossi-Fini che prevedeva, il reato di clandestinità per chi metteva piede nel nostro paese senza permesso e saltando le regolari procedure (i famosi «decreti flussi»). Clandestino più che una parola era diventata una specie di clava ideologica, usata da una parte politica, con la Lega in prima fila, per rendere chiaro il concetto che per i nuovi arrivati non c’era posto. Che per loro non ci poteva esser altro che carcere o rimpatrio forzato.

Oggi quella terminologia sembra essere caduta in disuso, anche perché tecnicamente i richiedenti asilo, quali sono quasi tutti i centinaia di migliaia di migranti di questo 2015, sino all’eventuale rifiuto della richiesta non sono clandestini. Ma dietro l’eclissi di questa parola ci sta un fenomeno che tocca il livello profondo della coscienza collettiva. «Clandestino» dice il vocabolario è persona che si nasconde. Letteralmente significa «nascosto al giorno», dalle due parole latine che lo compongono. In realtà le persone che abbiamo definito tali per tanti anni non si nascondevano affatto. Le vedevamo sbarcare ogni giorno dal mare. Ne conoscevamo i volti, a volte anche le storie. Nessuno veniva per nascondersi ma semmai per cercare di avere «un posto al sole». Perché allora «clandestini»? Perché dovevano sparire dalla coscienza di ciascuno di noi, non dovevano sollevare problemi morali circa il loro destino. Non erano clandestini sul piano della realtà, lo erano sul piano della percezione collettiva. Su un piano che potremmo definire simbolico.

Perché oggi, nella situazione più emergenziale di sempre, con record di arrivi mai raggiunti dalla guerra nella ex Jugoslavia, nessuno pensa più che queste persone siano clandestini? Ci sono tante spiegazioni possibili. Certamente siamo di fronte ad uno dei fenomeni profondi generati dalla figura e dalle parole di papa Francesco. Il suo approccio così chiaro, così irriducibilmente umano alla questione migratoria è di una persuasività tale da smuovere il cuore e la coscienza di ogni persona. Papa Francesco non fa analisi, non si azzarda a proporre soluzioni che spettano a chi governa. Non parla neanche del fenomeno migratorio e delle sue drammatiche implicazioni.

Parla invece delle persone che costituiscono questo impressionante fenomeno dei nostri giorni, quasi le avesse di fronte una ad una. E le persone è difficile nasconderle agli occhi e alla coscienza. Perché parlano con i loro volti e con le loro attese. Sono quei volti che improvvisamente e anche po’ a sorpresa, settimana scorsa, hanno conquistato la simpatia e l’accoglienza di mezz’Europa. Non hanno vinto una battaglia. Hanno semplicemente camminato alla luce del sole.

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