Il pentito

L’hanno catturato quelli giusti. In fondo sembra contento, Salah Abdeslam, di essere stato trovato dai poliziotti belgi, anche se gli hanno infilato un proiettile in un polpaccio mentre provava a scappare.

Il primo kamikaze pentito della storia della Jjhad, nonché terrorista ricercato numero uno d’Europa per le stragi di Parigi, correva un pericolo più grande: finire nelle grinfie dell’Isis, che non ha ancora un’intelligence, ma non difetta di adepti fanatici. Per la legge del Califfato, Salah Abdeslam aveva compiuto il sacrilegio più grande, doveva farsi esplodere allo Stade de France la sera della partita Francia-Germania e non lo ha fatto. È fuggito come un ladro, prima nella banlieue parigina poi in Belgio, a Forest e infine a Molenbeek. È tornato lì da dov’era partito e dove vivono la madre e il fratello, seguendo il riflesso condizionato di un uomo braccato, che si fida solo dei familiari.

In carcere ha cominciato a parlare, e lo ha fatto assumendosi ogni responsabilità («Il 13 novembre ero a Parigi e ho preso parte agli attacchi») come tutti coloro che vogliono collaborare. L’ex meccanico esperto di esplosivi può diventare prezioso come una miniera d’oro nella ricostruzione della rete di cellule dell’Isis presenti nel cuore dell’Europa e forse anche dei metodi di reclutamento dei foreign fighters. Così come furono i pentiti a far smantellare i covi delle Brigate Rosse e di Prima Linea; così come fu Tommaso Buscetta - arrendendosi a Giovanni Falcone - a svelare i segreti di Cosa nostra, ora Salah Abdeslam potrebbe essere decisivo. In cambio della sua collaborazione ha chiesto di non essere estradato in Francia. Ufficialmente «perché mi odiano», in realtà perché nelle carceri francesi sarebbe meno difficile trovare qualcuno disposto a chiudergli la bocca.

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