Moderna fiera delle avidità
nello scontro fra due mondi

Una messa in scena della generale fiera delle avidità che permea capillarmente il nostro vivere sociale. Delle minuscole passioni che possiedono il microcosmo dell’individuo, e vanno a comporsi, si fa per dire, in una intricatissima rete vettoriale di forze, di lotta per l’autoaffermazione: lo spettacolo della vita ridotta a farsa, grottesco, recita, finzione. Anche per questo, forse, l’ultimo romanzo di Andrea de Carlo si intitola «Il teatro dei sogni» (La nave di Teseo, pp. 426, euro 20). E un teatro, attorno a cui si svolge una trista rappresentazione di «struggle for life» nell’era tele-informatica, è, almeno, co-protagonista muto della vicenda. Il romanzo mette, sin da subito, in dialettica, due mondi lontani anni luce: una giornalista, si fa per dire, inviata di una trasmissione televisiva trash, immersa in un brodo colturale di selfie, follower, smartphone-video da postare, dirette televisive nel segno della rissa, dell’aizzare i contendenti, dello sfruttare ogni lacrima e ogni urlo per fare Auditel, del fingere sentimenti che non si provano e commozioni che non esistono. E un marchese quasi irrintracciabile in rete, tetragono ai social, «visibile» solo per le sue pubblicazioni su riviste specializzate di archeologia. Mentre il programma dell’inviata, Veronica, è seguito da milioni di spettatori, i saggi del blasonato archeologo saranno letti da uno sparuto, residuale Jockey Club di addetti ai lavori. Dall’incontro, fortuito, fra questi due emisferi, nasce una vicenda che ha del paradossale, ruota intorno ad un teatro di impianto ellenistico nella pur residuale proprietà del marchese, e porta in emersione volgarità, appetiti, pochezza, ignoranza di un mondo politico che, tra il molto altro, ha permesso un’infinita anarcoide gemmazione di scempi edilizi, che assemblano nel più perfetto disordine stile bunker e chalet svizzero, «fantasia pseudocaliforniana» e «smargiassata anni Ottanta». Mondo politico in cui, nell’attualità pressoché live streaming del testo, sono riconoscibilissimi Lega e Cinque stelle, i rispettivi points faibles portati in scena con infastidita sprezzante acribia. Rivaleggiante con il protagonismo dei politici, la tv d’assalto, agone della lotta feroce non più tanto per il pane, quanto per la «visibilità», il farsi vedere per esistere. Quello - non molto - che si salva dal sabba ha un po’ lo stigma dell’aristocraticismo, di un buon gusto un po’ da survivor. Ma, per vederlo in luce più nitida, bisogna aspettare il clamoroso colpo di scena, o di teatro, finale.

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