Barbari «social»
e narcisismo

Le immagini dell’inno d’Italia svilito a tormentone estivo psichedelico sparato ai massimi decibel hanno suscitato l’indignazione di molti nei confronti del ministro Salvini. Il vero problema, tuttavia, è che ciò che sta ormai degenerando a livelli parossistici è il terminale ultimo di quella «mutazione» sociale tratteggiata con chirurgica maestria già nel 2006 da Alessandro Baricco nel suo saggio «I barbari». Certo, ci si indigna ancora, e per fortuna,
di fronte ad alcune totali cecità di buon senso e buon gusto da parte di primarie cariche istituzionali, ma ciò che pare ormai irrimediabilmente scomparso è lo stupore. Anche chi si indigna, infatti, è come se mettesse già in preventivo che quella determinata cosa su cui si è indignato sarebbe potuta accadere. Nessuno si stupisce più. Atrocità, volgarità, inaudite violenze dopo futili liti in discoteca, agguati con l’acido, pirati della strada, attentati, pedofilia, infanticidi, blasfemie gratuite, rimandi pornografici perpetrati al ritmo del rap.

Tutto è già visto, ingoiato, metabolizzato dalle nostre coscienze d’Occidente che, nella migliore delle ipotesi, s’indignano in questa fase ancora transitoria che ci sta tutti trasformando, chi più chi meno, chi più consapevolmente chi meno consapevolmente, da esseri umani solidali in barbari.

Sociologi, filosofi ed epistemologi l’hanno definita «post modernità». L’era della «monarchia digitale» che dirige e sottomette ogni altro impulso vitale, obbligandoci per l’appunto a una vera e propria mutazione finanche delle nostre reti neurali. Un processo convulso e ineluttabile che in relativi pochissimi anni è riuscito a smantellare convenzioni civiche secolari. Raffrontare allora, come molti hanno fatto sui social, la foto di Salvini a torso nudo con dj e relative cubiste con quella di Aldo Moro al mare di Terracina in giacca e cravatta insieme all’allora piccola figlia Agnese, oppure quella sempre di Salvini che fa la linguaccia accanto a bagnanti discinte al Papeete Beach di Milano Marittima con quella di Enrico Berlinguer insieme a moltitudini devote di proletari significa semplicemente illudersi che il problema sia solo nella sempre più evidente mancanza di attendibilità istituzionale e di visione politica di gran parte dei nostri governanti.

In democrazia si comanda e si governa legittimamente in nome e per conto degli elettori. Chi governa rappresenta inevitabilmente, perciò, uno specchio assai fedele quanto meno di un’elevata percentuale di votanti. E questa, lo sappiamo ormai tutti bene, è l’epoca del trionfo del sé narcisistico. Quel continuo bisogno non più sociale, bensì «social», di attendere con ansia quanti «like» riceviamo dopo la pubblicazione di un comunissimo risotto agli asparagi o dell’ennesimo retorico tramonto spogliato della sua ancestrale magia. Siamo perennemente immersi in un individualismo sterile e volgare, alla continua mercé di un disperato bisogno di consenso che solo vent’anni fa sarebbe stato diagnosticato da un punto di vista medico-psicanalitico come «disturbo narcisistico della personalità». Perché dovremmo allora stupirci di quanta pochezza di visione e di statura politica emerga nei sempre più frequenti (e sempre meno interessanti) dibattiti televisivi e, soprattutto, nel marasma opportunistico e qualunquista con cui oggi molti politici utilizzano i vari social, divenuti asse portante e, dunque, imprescindibile di ogni tentativo di scalata del consenso elettorale. Magari il problema fosse solo quello di rimettersi la giacca e la cravatta. La sensazione sempre più asfissiante, anche quando i politici sono vestiti e pettinati di tutto punto, è di essere governati in costume, ciabatte e bolle di sapone dal Papeete Beach.

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