Caso Grillo
L’inchiesta
e le parole
di troppo

La notizia dell’inchiesta su Beppe Grillo per traffico d’influenze illecite è stata raccontata da alcuni cronisti e commentatori con una punta di veleno, accenni vendicativi verso il fondatore dei 5 Stelle, movimento che sulle indagini giudiziarie verso altri politici ha costruito parte del proprio consenso, sposando una linea giustizialista. Un quotidiano nazionale con malcelata soddisfazione ha dedicato alla vicenda il titolo principale in prima pagina con queste parole: Grillo il «lobbista». Un titolo che ha già il sentore di una condanna.

Il garante dei M5S è finito nel mirino della procura di Milano, la quale sta facendo luce su alcuni contratti pubblicitari sottoscritti nel 2018 e nel 2019 dalla compagnia di navigazione Moby, che fa capo all’armatore Vincenzo Onorato, con il blog Beppegrillo.it. Il circo mediatico giudiziario si è scatenato con pagine di ricostruzione della vicenda e sulla fine della (presunta) purezza dei grillini, come peraltro già accaduto per le inchieste che hanno riguardato l’ex sindaco di Roma Virginia Raggi, poi assolta. Le somme andrebbero tirate dopo le sentenze, non ad avvio indagini. Nei giorni scorsi la Corte d’Appello di Catania ha assolto dopo 12 anni (12 anni: un’infinità) l’ex presidente della Regione Sicilia, Raffaele Lombardo, dalle accuse di concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione elettorale. L’ex governatore venne travolto dal circo mediatico giudiziario quando ricevette l’avviso di garanzia. La riforma Cartabia, per evitare processi improbabili, ha previsto che il giudice dell’udienza preliminare deve pronunciare sentenza di «non luogo a procedere» quando «gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna» dell’imputato. I latini dicevano «in dubio pro reo»: la giustizia non può basarsi sui sospetti o su sentenze preventive fuori dalle aule dei tribunali. Non in un Paese civile.

La posizione dei 5 Stelle sulle indagini riguardanti colleghi di altri partiti non è mai stata improntata alla prudenza, imposta sul tema dall’articolo 27 della Costituzione (l’imputato non è considerato colpevole fino alla condanna definitiva) ma invece a un pericoloso furore inquisitorio e ad una cultura del sospetto generalizzata (il giudice Giovanni Falcone davanti al Csm disse che «non si può investire nella cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, è l’anticamera del khomeinismo»).

Ma usare l’inchiesta su Grillo come una clava - per altro da chi sposò comunque il «dagli alla casta» - imbarbarisce ulteriormente il clima dei rapporti vischiosi tra politica, informazione e magistratura. La giustizia e la vendetta non sono sinonimi e in Italia nel diritto e nella procedura penale vige (o dovrebbe vigere) la presunzione di non colpevolezza. Il leader di Italia Viva Matteo Renzi ha così commentato l’inchiesta della procura di Milano: «Auspico che i giornali siano con l’indagato Beppe Grillo più garantisti di quanto lo siano stati con gli indagati dell’inchiesta Open (che chiama in causa l’ex premier, ndr). E sono certo che nessun deputato 5 Stelle gli riserverà il trattamento squallido che invece hanno dedicato a noi». Non sappiamo come finirà la vicenda giudiziaria del fondatore del M5S ma è sempre utile ricordare che nel nostro Paese la metà dei processi di primo grado si chiudono con l’assoluzione dell’imputato. Soltanto il 40% dei processi arriva a dibattimento e di questi appena il 43% si chiude con la condanna: il 30% con l’assoluzione, il resto con archiviazioni. Quindi di 100 indagati in media ne vengono condannati meno di 20 (fonte ministero della Giustizia). Ma abbiamo il 40% dei detenuti in attesa di giudizio.

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