La saggia maestra
che nessuno
ascolta

La città dei vivi occupa 364 giorni del nostro anno, li invade con i suoi problemi, i suoi affanni, i suoi sacrifici. Non è giusto che almeno un giorno lo dedichiamo alla Città dei Morti? Che almeno in questo Dì dei morti, ci ricordiamo seriamente e con coraggio che «non abbiamo qui una città stabile, ma siamo tutti in cammino verso la futura»? Temiamo che pochi lettori andranno al di là di queste prime righe. Forse mai la morte ha spiato così crudelmente la fragilità dell’uomo, come nei tempi moderni, dall’angolo di una strada, da una tenue nube, dagli ingranaggi delle macchine cieche, da mille cause imponderabili e mai l’uomo ha cercato così affannosamente di sfuggir via in fretta dalla sua lezione, di non riflettere.

E così la Morte che, guardata in volto, è la più saggia maestra di vita, resta soltanto un’ombra fredda, un incubo che assale alle spalle. Ma è strano che ciò succeda forse anche ai cristiani, a noi che non dovremmo «piangere come coloro che non hanno speranza», poiché sappiamo che Cristo «morendo ha distrutto la nostra morte e risorgendo ha riparato la nostra vita». Quei cancelli della «piccola città» si chiudono, per noi cristiani, soltanto su una giornata terrena dei nostri cari che sapevamo già perfettamente essere uguale a una qualsiasi altra giornata di lavoro, con la sua alba, il suo mezzogiorno, il suo pomeriggio, la sua sera…

Il giorno della morte è, per noi, il giorno dell’operaio che chiede la sua mercede… che sa a Chi si è affidato... che aspetta Gesù che, venuta la sera, lo inviti sull’altra sponda... L’ora del cristiano che ha atteso il suo Dio come il guardiano l’aurora. Per il cristiano la morte chiude, nella sua mano fredda, le verità più dolci della vita, le speranze più chiare. Ma per tutti è una lezione di saggezza: perché agitarci per tante cose inutili? Perché non distinguere quello che passa da ciò che resta? Perché non cerchiamo quello che nessuna morte può distruggere?

Questo ci chiede la Città dei Morti, che è poi la città viva di ieri e che sarà domani la città di tutti noi che viviamo oggi. Là sono i nostri padri, quelli che hanno costruito pietra su pietra la nostra città, che vi hanno seminato fatiche, sacrifici, entusiasmo, bontà. Li dimentichiamo ormai troppo in fretta, crediamo che basti una preghiera detta dai loro famigliari, un fiore… mentre essi ci chiedono di camminare fra le loro tombe, fra quelle conosciute, ma anche fra quelle che non conosciamo, pregando, ma anche riflettendo con gratitudine, cercando di non dimenticare il patrimonio morale che essi hanno silenziosamente lasciato alla loro città, con la loro onestà civica, la loro Fede, il loro sentire cristiano.

Almeno oggi lasciamo che sia la Città dei Morti a guidare quella dei vivi, che le tombe siano delle grandi cattedre, dei libri aperti per la saggezza di pensieri eterni davanti a queste nostre povere città terrene così prese ormai nella furia delle piccole vane cose che non contano e che il tempo consuma. La città dei vivi ascolti oggi il Cantico delle Creature: «Laudato sii, mi Signore, per sora nostra morte corporale».

* Ripubblichiamo il testo dell’editoriale che monsignor Andrea Spada, storico direttore de L’Eco di Bergamo, scrisse il 2 novembre 1961. Una riflessione sulla Città dei Vivi e la Città dei Morti che non ha perduto nulla della sua forza e riesce ancora a stupirci per la sua impressionante freschezza e attualità.

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