L’accidia politica
narcotizza le coscienze

Mancano cinque giorni. E in cinque giorni il Parlamento non può approvare una legge. Ma può decidere di avviare una discussione. Sarebbe una bella svolta per l’Aula del Senato dove si può mettere in agenda un dibattito sull’eutanasia serio, approfondito, dove ragionare anche su quella sorta di torpore per non dire di rassegnazione per la potenza che hanno le parole e i gesti quando sono urlate e imposti dalle nuove regole dei social network.

Oggi la marginalità attribuita ai ragionamenti complessi nel dibattito istituzionale e quindi pubblico ha fatto raggiungere un risultato drammatico al Paese che sfiora la narcotizzazione delle coscienze. Avviare il dibattito in Parlamento e contestualmente fuori, cioè in quella società civile dove sembra girare solo il «cattivo pensiero» dei social, sarebbe anche un buon metodo per affrontare quella sorta di accidia politica che ha alzato bandiere bianche per segnare inoperosità, indicare mancanza di volontà e sfiorare una vera e propria apatia morale ed etica, insomma un gelo steso su tutte le questioni più drammatiche del bene comune. Dopo un anno passato ad azzuffarsi su porti chiusi o aperti, alta o bassa velocità, redditi da lavoro o da cittadinanza, tasse piatte o coniche serve un cambio di passo.

Ma occorre esserne convinti. Non basta infatti che la Suprema Corte l’abbia imposto per ultimatum. L’accidia non è solo sinonimo di pigrizia. L’accidia è propria di colui che ha deciso di lavarsi le mani pubblicamente di fronte ai problemi. È una pratica che sfiora il peggior cinismo, perché fa di cose complesse cose semplici. Vale nel dibattito in questione, ma vale anche per tutti quegli argomenti citati più sopra ridotti alla semplificazione estrema di competizione tra buoni o cattivi e nella ricerca corta delle loro soluzioni. Dietro all’irresponsabile dibattito sui porti aperti o chiusi c’è il problema complesso delle migrazioni e averlo ridotto ad un fatto di autorizzazioni marittime ha significato spazzarlo via dall’orizzonte, argomento da crocetta, sì o no, nero o bianco, sul quale o si è indifferenti o si è avversi.

Così accade per quasi tutti gli argomenti in questo Paese negli ultimi anni. Non si riesce ad avviare un «grande dibattito» su nulla, né in Parlamento né fuori. E quando le questioni bussano alla porta e irrompono nelle stanze va in scena la battaglia delle retoriche opposte di solito in nome dell’urgenza. Il metodo è sempre quello sì o no, nero o bianco. Su tutto: dalla Tav all’eutanasia. Sono spariti i luoghi simbolo del dialogo dove comporre i dolori, gli affanni, i pensieri. Si spaccia per passione politica nazionale ritrovata l’atto di poche migliaia di polpastrelli, viatico ad un governo che non ne aveva affatto bisogno. L’accidia politica così è diventata indolenza e avversione per ogni sfida. La Suprema Corte ha sfidato il Parlamento sul suicidio assistito, proponendo una grande discussione sull’eutanasia. E il Parlamento si è sfilato, come a dire lasciateci stare… Indifferenza non per avversione, ma per qualcosa d’altro e di ben più grave, cioè perdita dell’orizzonte da parte di persone culturalmente stanche, provate, spente. In una parola irresponsabili.

Vorremmo che così non fosse, ma l’esperienza degli ultimi mesi, le risse più o meno spontanee, l’inseguimento del proprio esclusivo piacere o del proprio personale tornaconto, la mancanza di visione e di ricerca di un progetto, se non per la propria abilità ad ottenere benefici per sé o propri cari, non lascia molta speranza. Un piccolo margine per un sussulto in modo da rimediare all’accidia politica c’è ancora. La posta in gioco è alta, come lo è su tutte le questioni che deve affrontare una democrazia parlamentare. Ma è il profilo pedagogico quello più rilevante da non sottovalutare: aiutare i cittadini a riflettere, appunto, sulla posta in gioco.

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