Piazza ed elezioni
Le attese politiche

Ora che si è visto che andare in piazza in tanti è relativamente facile, sarebbe un esercizio stucchevole dare un peso qualitativo alle varie manifestazioni di queste settimane. Il valore del sì o del no a questo o a quello non dipende dall’algebra di partecipazioni che, al netto delle rispettive capacità organizzative, sono state sostanzialmente equivalenti. È uno dei tanti limiti della cosiddetta democrazia diretta, e infatti la palla è già tornata nel campo governativo, autorizzato ad interpretare questi eventi come meglio crede, anche se sarebbe utile che comprendesse che il tempo dei rinvii è terminato. Sì o no, basta con i forse.

Sugli stessi temi, non si terrà in piazza ma ha un significato diverso, la manifestazione indetta oggi dagli artigiani, non a caso a Milano, città che (ad esempio con il grande applauso tributato a Mattarella, non solo alla Scala, ma in strada, e con reiterati appelli a pagamento, sui quotidiani, di esponenti della sua classe dirigente), si sta consolidando sempre più come il centro della capacità nazionale di proposta. Il luogo operativo del fare, allergico, fino al rigetto, verso coloro che non decidono. C’è una grande differenza tra l’incontro tenutosi di recente a Torino, e questo che si preannuncia: qui si muove la base, là vi era stata la testimonianza dei vertici. Il successo di Torino è stato quello di mettere insieme tutte, davvero tutte, le rappresentanze produttive del Paese. È stato un incontro «politico»: il concreto popolo del Pil contro un popolo immaginario descritto nei comizi come fosse una cosa sola, anzi 60 milioni di persone, senza sfumature e differenze tra loro. Qualcosa di talmente irreale da essere surreale.

Questo degli artigiani sarà invece un incontro di attori dell’economia, che chiedono semplicemente di uscire da eterni rinvii e essere messi in condizione di lavorare. Viene in mente un celebre passo di Luigi Einaudi sui «milioni di individui (che) lavorano, producono e risparmiano, nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli e scoraggiarli». Un passo che andrebbe però aggiornato, perché l’impresa non solo soffre per gli appesantimenti nella propria attività ordinaria, ma perché il sistema pubblico non le offre i più fisiologici strumenti di crescita. Nel mondo di oggi, le infrastrutture sono diventate decisive, perché dinamismo e mobilità sono condizioni di concorrenza e sopravvivenza, specie per un Paese esportare. Strade, autostrade, superstrade, valichi, alta velocità, alta capacità, porti, aeroporti e poi tutto ciò che riguarda l’analoga velocità della rete.

Le infrastrutture non possono aspettare oltre, in particolare nel Nord. Gli artigiani, e non solo quelli del trasporto, sono i più colpiti dalla mancanza di collegamenti veloci, perdendo ogni giorno tempo e denaro su strade impossibili, senza manutenzione da quando le Province sono state «abolite». Alla politica chiedono semplicemente un sì o un no. Non c’è niente che li esasperi di più dell’invenzione di commissioni di studio su cose già studiate mille volte. In particolare, chi è in grado di decidere già oggi, e non lo fa perché «bisogna aspettare le elezioni» si assume una responsabilità gravissima, in un momento in cui avanza una nuova recessione e tutto rallenta. E poi: «quali elezioni», in un Paese in cui ci sono elezioni ogni stagione? Se ci si riferisce alle Europee di fine maggio, sono sei mesi buttati via e vien naturale chiedersi quanto tempo ci vorrà poi per interpretare il risultato. Certamente se ne andrà l’estate e tra un anno da oggi potremmo trovarci ancora a discutere le stesse cose, a riempire le stesse piazze in vista di possibili «nuove elezioni»? Una democrazia vive di elezioni, ma può morirne, se le utilizza per rinviare e non fare.

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