Ue, sui migranti
non si può rinviare

Non sarà assolutamente facile definire un meccanismo automatico per ridistribuire i migranti in Unione europea, come adesso richiedono insieme a gran voce Francia e Italia, e forse riscrivere il trattato di Dublino in un secondo momento. È semmai necessario andare oltre la situazione attuale e concordare direttamente una nuova politica comunitaria in materia, certamente più efficace di quella attuale, con un maggiore impegno (anche finanziario) soprattutto fuori dalle frontiere dei Ventotto.

Le sfide del futuro in questo campo, ingigantite dal progresso tecnologico e dai cambiamenti climatici, saranno enormi, tanto che qualche autorevole media internazionale - analizzando i dati demografici, in particolare in Africa - scrive già di «bomba umana» incombente nei prossimi decenni. In altre parole, non serve la classica «pezza» per placare ora parte delle opinioni pubbliche nazionali e fermare certe derive pericolose. È venuto, invece, il momento di affrontare la questione alla radice. Soprattutto perché in Ue esistono realtà ed esperienze storiche assai diverse, difficilmente conciliabili. Ad esempio, vengono minimizzati due irti scogli contro cui si sono infranti finora tutti gli sforzi per un accordo.

Il primo riguarda il «no» dell’Europa centro-orientale alle quote; il secondo la volontà dei migranti sul luogo dove vivere. L’allargamento Ue ad Est del 2004 a dieci nuovi membri è stato dettato più da esigenze geopolitiche, di fuga verso Ovest di molti di questi Paesi ex «satelliti« del Cremlino, che da una vera compartecipazione di valori, che lentamente, però, vengono lo stesso assimilati da quelle società. Quindici anni fa la «Casa comune europea» si è così trasformata in una sorta di «condominio» in cui i singoli troppo spesso fanno eccessiva attenzione ai propri vantaggi rispetto a quelli comunitari.

Ad Est dal 2004 si è assistito allo stesso tempo ad una profonda trasformazione, i cui costi socio-economici sono stati alleviati dai copiosi fondi strutturali dei Ventotto. Globalmente, l’Europa centro-orientale ha perso dal crollo del Muro di Berlino 24 milioni di abitanti. Inoltre, lo shock per i quattro decenni oltrecortina non è ancora del tutto superato: «Non siamo usciti dal Comecon/Urss – si sente dire - per farci imporre qualcosa in un’altra Comunità». Le differenze di Pil pro-capite rispetto a quello dei Paesi Ue più avanzati sono poi considerevoli.

Se si interloquisce con politici ungheresi, balcanici o baltici si ascoltano medesime giustificazioni di carattere psicologico, storico, socio-economico. Estoni e lettoni ricordano anche la presenza sul loro territorio di comunità russe, pari al 30% della popolazione. Una volta il ministro degli Interni estone, Stato in quel momento che deteneva la presidenza dell’Unione, ci disse: «Quanti migranti pensa possa ospitare un Paese con 1,3 milioni di abitanti?». E poi: «Chi viene da noi dopo pochi mesi se ne va in altri Paesi europei dove possono guadagnare di più o dove hanno parenti». Appunto, come si può imporre, contro la loro volontà, a dei migranti di rimanere in un Paese a loro assegnato? Le mete più ambite, è risaputo, sono Francia e Germania. Ad Helsinki un considerevole numero di autisti degli autobus è di origine somala, arrivati all’interno di una quota Onu di rifugiati. Da quanto appreso, si è messo in atto un programma di integrazione, che, stando agli esperti locali, non è affatto facile. Accordarsi sulle politiche di accoglienza di quanti ne hanno diritto, definire nuovi programmi di aiuti per i Paesi di provenienza dei migranti in particolar modo formando quadri, fermare lo «scaricabarile» tra membri Ue oltre che impostare una vera politica estera dei Ventotto sono passi indispensabili non più rimandabili.

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