La malattia è diventata una luce nel buio per noi, per i nostri figli «adottati» in Africa

Gianluigi Colleoni dieci anni fa ha avuto la diagnosi del Parkinson, la moglie Lidia convive con la sclerosi multipla.

Come una nuvola, la diagnosi di una malattia degenerativa annebbia la visuale, si insinua sottopelle, provoca disagio, disorientamento, perfino disperazione. A volte, però, come racconta Gianluigi Colleoni, «proprio nei momenti più difficili nasce una luce, nel cuore, che spinge a reagire, a non cedere». Un’energia che - in un colpo di vento - spazza via timori, insicurezze e spinge a trovare un senso nuovo alle proprie giornate, «non solo per sé ma per aiutare gli altri».

Gianluigi da dieci anni ha la malattia di Parkinson, sua moglie Lidia, invece, convive con la sclerosi multipla da quando ne aveva 24 e «pochi sapevano cosa fosse». Abitano in città, al Villaggio degli Sposi, che è il quartiere in cui sono cresciuti. Si conoscevano fin da bambini, perché le loro famiglie abitavano in due appartamenti adiacenti.

«Eravamo amici - sorride Lidia - io mi confidavo con lui, gli parlavo dei miei fidanzati. Allora non avrei mai immaginato che un giorno ci saremmo sposati». Poi il papà di Lidia ha avuto un ictus, che l’ha reso invalido, e dopo qualche anno è morto. Anche lei, intorno ai 25 anni, ha iniziato a manifestare sintomi insoliti, che facevano pensare a una patologia analoga: «Avevo perso sensibilità al caldo e al freddo da un lato del corpo. I medici avevano inizialmente diagnosticato una siringomielite, una malattia del midollo spinale. Dopo alcuni esami però avevano cambiato idea, pensando a una neurassite generica, una patologia del sistema nervoso». Allora non c’erano gli strumenti diagnostici disponibili oggi: «La sclerosi multipla - sottolinea Gianluigi - veniva individuata in base ai sintomi e per esclusione rispetto ad altre patologie. Per questo la diagnosi è arrivata solo dopo anni, nel 1976». Nel frattempo Lidia ha dovuto fare i conti con pregiudizi e stereotipi: «Pensavano che non avessi speranze - ricorda -, al punto da sconsigliarci il matrimonio. Gianluigi però non si è tirato indietro, anzi ha insistito, così ci siamo sposati lo stesso».

Per anni Lidia ha condotto una vita praticamente normale, con un’alternanza di fasi acute e di remissione. «Ho dovuto rinunciare - spiega - al mio lavoro in sartoria e pellicceria, perché richiedeva precisione e una forte componente di manualità, e soffrivo spesso di un’invincibile stanchezza. Allora la diagnosi di sclerosi multipla veniva immediatamente associata con l’impossibilità di camminare e quindi con l’uso della sedia a rotelle, invece nel mio caso non è stato così, abbiamo avuto per lungo tempo una buona qualità di vita, con un grado apprezzabile di indipendenza. Poi c’è stato un peggioramento e ora devo effettivamente usarla».

Gianluigi e Lidia dopo il matrimonio si sono trasferiti a Brescia, dove hanno vissuto per vent’anni e lì si sono avvicinati all’Aism, Associazione italiana sclerosi multipla (www.aism.it): «Ho conosciuto altre persone con questa malattia - sottolinea Gianluigi - e insieme abbiamo fondato la sezione locale dell’associazione. Ci ho messo molto impegno ed entusiasmo, perché mi sono reso conto che c’era necessità di dare una spinta sia per diffonderne la conoscenza sia per intervenire sugli aspetti sociali della malattia». Grazie all’impegno di Gianluigi e della sezione Aism a Brescia è nato un ambulatorio specialistico dedicato alla sclerosi multipla. «Ci siamo resi conto - chiarisce - che se ne sapeva davvero poco, anche nell’ambiente sanitario. C’erano i nostri volontari che aiutavano e offrivano informazioni utili ai pazienti, ma senza di loro ci sarebbe stato un grande vuoto. Così abbiamo deciso di condurre un’azione di sensibilizzazione anche negli enti e nelle istituzioni pubbliche, per ottenere più riconoscimento, risorse e attenzione. Ci siamo dati da fare per promuovere attività riabilitative e terapie domiciliari, per quanto i mezzi ci consentivano. Abbiamo dato impulso a convegni e manifestazioni capillari sul territorio con interventi di neurologi, fisioterapisti ed esperti di previdenza sociale per rispondere alle domande delle persone con questa patologia. Era anche un modo per potenziare le relazioni tra specialisti e pazienti. Ci siamo resi conto che c’erano molte difficoltà ma anche tante possibilità per affrontarle in modo positivo, lavorando insieme».

La ricerca scientifica

Così Gianluigi ha ampliato il suo raggio d’azione: «Per dieci anni sono stato vicepresidente nazionale dell’Aism. Ho attraversato l’Italia dando impulso alla creazione di tante nuove sezioni locali. Poi mi sono impegnato per alimentare le relazioni fra di loro, in modo che unissero le forze. Abbiamo messo in comune gli strumenti organizzativi e comunicativi, offrendo informazioni e strumenti operativi per esempio sulla raccolta fondi. Abbiamo messo a punto iniziative di formazione a livello nazionale. Ci siamo dedicati con slancio a promuovere la ricerca scientifica». Questa attività di volontariato gli ha dato «moltissime soddisfazioni» e gli ha permesso di dare un senso e un respiro più ampio alla sua storia personale. Lidia ne è stata fiera e felice, nonostante abbia comportato per lei qualche sacrificio: «Ho potuto fare tutto questo perché lei me lo ha consentito - dice Gianluigi - ci sono state settimane in cui quasi non ci vedevamo, ero sempre in viaggio. Lidia restava a casa, ma in quel periodo era autosufficiente e automunita».

Poi però le sue condizioni sono peggiorate: «Quando mi sono accorta di non riuscire più a muovermi in modo sicuro - chiarisce Lidia - e di non avere i riflessi pronti, ho scelto io stessa di non spostarmi più con l’auto. Temevo che mi capitasse un episodio acuto proprio mentre mi trovavo al volante».

Nel 2000, con l’aggravarsi dei problemi di salute di Lidia, è arrivato il momento di compiere una scelta importante: «Ci siamo trasferiti nuovamente a Bergamo. È stata una decisione difficile ma necessaria, in modo da poter contare sulla vicinanza delle nostre famiglie. A cinquant’anni ci siamo ritrovati a rimetterci in discussione e ricominciare da capo. Ho cambiato vita e lavoro, ma ho anche ritrovato l’affetto e il sostegno di una famiglia molto affiatata».

Gianluigi e Lidia non hanno avuto figli ma nel tempo hanno «adottato» a modo loro alcune famiglie del Senegal: «Abbiamo iniziato per caso - spiega Lidia -. Un giorno ho incontrato un giovane venditore ambulante fuori dal supermercato, gli ho posto alcune domande, abbiamo iniziato a chiacchierare. Poi l’ho incontrato altre volte, ho parlato di lui con mio marito e insieme abbiamo deciso di dargli una mano».

Questo giovane si chiama Cisse, è arrivato in Italia per sostenere economicamente la sua famiglia e il suo desiderio più grande è sempre stato tornare in Senegal e aprire un negozio di ferramenta: «L’abbiamo aiutato a rientrare in patria - aggiunge Gianluigi - e a realizzare il suo progetto imprenditoriale. Dopo Cisse ce ne sono stati altri: uno, Mustafa, ha rilevato un’azienda che frantuma pietrisco per realizzare le massicciate, un altro ha aperto un autonoleggio. Abbiamo seguito con cura ognuno di loro, li abbiamo preparati al colloquio di lavoro, aiutandoli ad affrontare le difficoltà pratiche. Non abbiamo avuto figli ma loro adesso ci chiamano mamma e papà. Ogni volta che andiamo a trovarli in Senegal riuniscono la famiglia e organizzano una grande festa. Continuiamo a tenerci in contatto con loro proprio come se fossero dei figli». Amano viaggiare e hanno continuato a farlo, affrontando con calma e creatività i problemi di movimento: «Ho inventato una sedia a rotelle con un monosci per spostarci più facilmente su un fondo sabbioso. Abbiamo girato il mondo, siamo stati anche in Somalia, ed è stata un’avventura rischiosa, perché c’era la guerra. Abbiamo trascorso due mesi in Ecuador, da soli, adeguandoci alle abitudini delle popolazioni locali. Non abbiamo permesso alla malattia di fermarci, anzi, è diventata un’occasione per aprire gli orizzonti. Non avevamo obblighi stringenti, per questo abbiamo potuto partire per questi viaggi».

Comunicazioni d’emergenza

Dieci anni fa Gianluigi si è accorto di avere la malattia di Parkinson: «Una brutta sorpresa - osserva - ma per ora è sotto controllo e non mi crea troppi problemi. Abbiamo adattato la casa alle nostre esigenze, modificando l’altezza dei divani e dei sanitari, aggiungendo campanelli e ricetrasmittenti per le comunicazioni “di emergenza”. Non è facile per noi spostarci ma non rinunciamo comunque alla nostra vita sociale, frequentiamo per esempio il Centro per tutte le età del Villaggio degli Sposi. Quando occorre sappiamo sdrammatizzare con un po’ di ironia, un’arma che funziona anche nei periodi più difficili».

«Senza paura e malattia - scrive il celebre pittore Edvard Munch - la mia vita sarebbe una barca senza remi». Gianluigi e Lidia hanno raccolto con tenacia e pazienza la sfida di trasformare la malattia in un’opportunità: «Non si può subire passivamente una situazione - commenta Gianluigi - sapendo che in fondo basta cambiare sguardo per ottenere comunque delle soddisfazioni e dare un significato diverso e inaspettato alla propria vita. Non ci piace aspettare in modo fatalistico che le cose accadano, vogliamo agire, essere protagonisti della nostra vita. È importante reagire e offrire qualcosa agli altri. Se a questo mondo ognuno si impegnasse a realizzare qualcosa per gli altri, tutti insieme potremmo ottenere un futuro migliore. A parole sembra facile, ma occorre muoversi per ottenere un vero cambiamento. Noi non abbiamo avuto figli ma abbiamo comunque trovato un modo per riversare il nostro desiderio di amare sugli altri».

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