«Il dono dell’Università ai giovani?
Una valigia piena di idee e coraggio»

Roberto Vecchioni sarà a Bergamo domenica mattina per partecipare alla cerimonia di consegna dei diplomi di laurea magistrale. L’intervista al cantautore e professore Roberto Vecchioni.

È uno dei padri storici della canzone d’autore italiana, ma è anche scrittore e insegnante di lungo corso. Nei licei è stato professore di latino e greco, e da qualche anno all’Università di Pavia tiene un corso sulle «Forme di poesia in musica». Roberto Vecchioni sarà a Bergamo domenica mattina per partecipare alla cerimonia di consegna dei diplomi di laurea magistrale.

Professor Vecchioni, è pronto a salire sul palco del Graduation Day?

«Sono pronto. È un grandissimo piacere venire a Bergamo a consegnare i diplomi di laurea e a cantare. Viviamo in un momento in cui la cultura è finita sotto i piedi della nostra orripilante società, per me è importante poter celebrare un giorno così bello e ricco di significato insieme ai ragazzi e a chi la cultura la porta come un vessillo. L’ho già fatto per l’Università di Venezia ed è stato bellissimo; sono altrettanto fiero di farlo per l’Università di Bergamo e sono certo che sarà una splendida mattinata».

Le è stato chiesto di cantare una canzone e lei ha scelto «Sogna, ragazzo sogna».

«L’ho scelta perché è la più rappresentativa delle speranze dei ragazzi, soprattutto in un momento come quello che stiamo vivendo oggi, in cui i sogni sono faticosi e a volte costosi, ma non bisogna mai abbandonarli».

L’Università di Bergamo negli ultimi anni è molto cresciuta, arrivando a superare i 22 mila iscritti con un aumento consistente delle matricole delle facoltà umanistiche. È legittimo chiedersi che futuro aspetti questi giovani.

«Io insegno all’Università di Pavia dal 2006 e mi chiedo la stessa cosa. I giovani laureati sanno che andranno incontro a difficoltà pazzesche, perché ormai la forbice tra l’umanesimo e il pragmatismo della società si è allargata tantissimo. Tu puoi sapere, avere sogni e fantasia ma poi la realtà è schiacciante. C’è una cosa, però, che l’Università ti insegna ed è la pazienza. E anche il coraggio, la capacità di pensare che si va nella vita con un bagaglio appresso, una valigia piena di coraggio, di idee e in queste condizioni la caduta, se mai arriverà, sarà molto meno dolorosa. La cultura ti dà la forza di difenderti, di ripartire. I ragazzi sanno benissimo che faranno anche lavori diversi da quelli per i quali si sono laureati, capita continuamente, ma dentro di noi dobbiamo avere qualcos’altro che ci faccia superare i momenti di difficoltà».

Il suo libro «La vita che si ama» fa capire quanto lei abbia amato insegnare. Come ha visto cambiare gli studenti in questi anni?

«Devo premettere che io sono andato in pensione nel 2000 e da allora non ho più lavorato con i liceali. Confesso che ero stanco, alla fine degli anni Novanta avevo capito che c’era qualcosa che non andava, si stava aggirando la cultura e si faceva fatica a insegnare, dopo 40 anni ero esausto. Gli anni Settanta e Ottanta sono stati fantastici, poi ho perso un pochino di forza anch’io. L’insegnamento in Università mi ha dato nuovo vigore, ma non è la stessa cosa. La vera scuola è quella che va dai 10 ai 18 anni. È li che ti fai, che capisci quali sono i valori e quali non lo sono».

Oggi tornerebbe in cattedra in una scuola superiore?

«Sì, se potessi usare lo stesso metodo di allora. Grande libertà di discussione, un po’ di maieutica, tentare di far parlare molto i ragazzi, uscire dalle aule e andare per strada, un metodo che ho sempre usato. Certo, se avessi vent’anni in meno mi piacerebbe tornare al liceo ma adesso come adesso no».

Torniamo al Graduation Day. Sarà in Piazza Vecchia, un luogo simbolico per l’ateneo che lì è nato e per tutta la città di Bergamo, essendo il cuore del centro storico.

«Va benissimo. Non vedo l’ora. Tutto quello che è vecchio – tra virgolette – a me piace molto, perché io sono un uomo del Novecento, mica del Duemila. E ne sono orgoglioso».

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