«La Shoah, non solo nelle foto»
La memoria in un incontro al Mascheroni

Nel pomeriggio di venerdì 31 gennaio Laura Fontana, rappresentante per l’Italia del Memorial de la Shoah di Parigi, ne parlerà al liceo Mascheroni. L’evento del Comune di Bergamo e del Museo delle storie.

La memoria della Shoah è riemersa nel dibattito politico culturale e dalla fase di indifferenza si è passati a una frenesia commemorativa: dal giorno della Memoria al moltiplicarsi dei viaggi ad Auschwitz (l’Italia è al 4° posto nella classifica mondiale dei visitatori). Eppure qualcosa non torna perché all’ossessione commemorativa fa da controcanto un’ignoranza diffusa tra giovani e adulti della storia della Shoah. Abbiamo indagato questa contraddizione con Laura Fontana, rappresentante per l’Italia del Memorial de la Shoah di Parigi, che venerdì 31 gennaio alle 15.30 terrà al liceo scientifico Mascheroni un incontro su tema «Usi e abusi dell’iconografia della Shoah». L’incontro è promosso da Comune di Bergamo e Museo delle storie di Bergamo.

Anche l’iconografia della Shoah è diventata un clichè?

«Nonostante siano disponibili milioni di fotografie storiche della Shoah o ad essa indirettamente collegate come quelle della liberazione dei campi di concentramento, il nostro immaginario comune si è formato e cristallizzato su una scelta molto ridotta di immagini, proposte in tutte le circostanze possibili e immaginabili, dai media ai libri di scuola: fili spinati, i cancelli di ingresso del lager, i bambini che escono dai campi di Auschwitz. A forza di essere utilizzate, sono sempre più scollegate dal contesto che le ha prodotte, e tendiamo a interpretarle in modo emotivo, simbolico e universale, a discapito dell’analisi e della conoscenza».

Qualche esempio?

«Una ventina di anni fa il Corriere della Sera lanciò un’iniziativa dedicata alle foto che hanno segnato il Novecento e i lettori segnalarono la nota fotografia del bambino arrestato nel ghetto di Varsavia. Ne nacque la proposta di adottare questa foto come simbolo di tutte le infanzie violentate dalle guerre e di esporla nelle pubbliche istituzioni. Ma non credo che in molti ne conoscano la storia, che è quella di un trofeo di guerra. Il comandante delle SS fa fare questo scatto non perché gli interessi documentare le vittime indifese, ma per testimoniare la sua “eroica” impresa agli occhi dei suoi superiori. Tant’è che la didascalia originale di quella foto è “stanati a forza dai loro nascondigli”, come se quel bambino fosse un pericoloso criminale. Ma questa immagine viene spesso utilizzata quando si parla di guerre, dimenticando che quel bambino è stato catturato in quanto ebreo. Così le fotografie storiche non funzionano più come “dispositivi della memoria” Sono diventate immagini mute, perchè noi non siamo più capaci di interrogarle. Non ci dicono più nulla della Shoah ma sono diventate evocative della cattiveria umana, del male assoluto, della sofferenza in genere. Viste e riviste in tutti i contesti, come sempre accade quando c’è un’ossessione ripetitiva non producono più alcuno shock emotivo in noi che le guardiamo. Quando hai visto più volte la stessa immagine di atrocità, la reazione è quella del déjà vu: la archivio nella mia mente come immagine collegata ai campi e alla Shoah».

Che alternativa abbiamo?

«Recuperare la nostra capacità critica nei confronti di qualunque materiale visivo ci viene proposto Ampliare il repertorio

non privilegiando soltanto le foto scattate dal punto vista dei carnefici, perché ci sono tantissime foto poco note scattate dagli ebrei per esempio nei ghetti, poco prima della loro deportazione. Qui c’è la prospettiva delle vittime. Sono immagini che smontano l’idea della loro passività, mostrando come gli ebrei hanno resistito in tutti i modi possibili, restando attaccati alla vita, disperata ma comunque vita. Insegnare matematica nel ghetto di Varsavia ai bambini che stanno morendo di fame, quando conosciamo la fine può sembrare assurdo, ma dalla prospettiva della vittima è un atto di dignità».

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