La felicità in tasca

Parlare di felicità, sia pure in termini approssimativi come accade agli argomenti qui trattati, mi piace molto.

Si potrebbe dire che, in qualche modo, la felicità come concetto astratto è sufficiente a rendermi felice. Questo basterebbe a dare un’indicazione del suo straordinario potere, e dunque a spiegare la mia fascinazione. C’è dell’altro, però: la felicità è interessante anche perché è rara. Studiarla, o anche solo osservarla, è come esaminare un minerale raro, una pianta esotica, un animale in via di estinzione.

La felicità è talmente rara – ma più precisamente si dovrebbe dire «fuggevole» - che allo scopo di rintracciarla e sviscerarla bisognerebbe costruire un acceleratore come quello usato a Ginevra per le particelle: facendo scontrare un atomo di speranza con uno di buonumore, chissà che non si ottenga un protone di felicità. Nell’attesa, si procede per tentativi.

La descrizione più recente della felicità vuole che essa sia legata all’esperienza e non alla «cosa in sé». In altre parole: felicità non è «la vacanza»; felicità è l’anticipazione della vacanza, la vacanza stessa e infine i ricordi piacevoli che rimangono in noi dopo la vacanza. Essa non è identificabile con una sola di queste cose: è invece composta da tutte e tre. Ora però c’è chi contesta questa definizione e, strano a dirsi, riporta il concetto della vacanza al concreto: a darci felicità più di ogni altra cosa sarebbero gli oggetti. Essi, secondo questa ipotesi, non sono un alternativa al concetto di «esperienza»: entrambe le cose inducono felicità, ma gli oggetti di più, perché sono più «presenti» e quotidiani.

L’esempio più citato di oggetto che produce felicità – lo avrete indovinato – è lo smartphone. Ognuno può ovviamente pensare quel che vuole di questa teoria, ma la prossima volta che vedremo qualcuno con lo sguardo perduto nel telefonino sapremo che cosa sta cercando. Ed essere felici (o tristi) per lui.

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