Piera, l’ultima combattente bergamasca
Scampò al lager buttandosi dal pullman

Schiaffi, insulti e minacce per minuti e minuti. E poi quel terribile «gioco»: sparare tentando di avvicinarsi il più possibile al corpo del prigioniero, ma senza colpirlo. Una tortura, psicologica e fisica, alla quale lei, Piera Vitali, resistette.

Schiaffi, insulti e minacce per minuti e minuti. E poi quel terribile «gioco»: sparare tentando di avvicinarsi il più possibile al corpo del prigioniero, ma senza colpirlo.

Una tortura, psicologica e fisica, alla quale lei, Piera Vitali, conosciuta come la «Biondina della Val Taleggio», resistette. Partigiana appena ventenne, non rivelò nomi e piani dell’86ª brigata Garibaldi. Oggi è ancora qui, a raccontare con una lucidità straordinaria quei momenti e una vita divenuta quasi leggendaria. Giovedì 19 Piera Vitali, originaria di Sottochiesa di Taleggio, ora residente a San Giovanni Bianco, compirà 90 anni. La sua è stata una vita segnata da quegli anni della Seconda guerra mondiale, quando, ancora giovanissima, si mise al servizio della Resistenza, facendo la staffetta tra le squadre partigiane, in Val Taleggio e Valsassina.

Nel 1944 partecipò alla cattura di un alto ufficiale della Gestapo, tale Dick. Pochi mesi dopo l’episodio che le segnò la vita: Piera venne mandata a Primaluna, in Valsassina, dove era imminente un rastrellamento fascista. Avrebbe dovuto condurre in salvo la moglie di un comandante partigiano. Con sé aveva una lettera di presentazione per la persona che non la conosceva. Durante il cammino viene però fermata a un posto di blocco.

Con sé non ha però nessun documento perché il suo nome, ormai, è diventato noto ai fascisti. Portata in caserma fa a pezzetti la lettera che ha con sé nascondendoli sotto una mattonella della cantina. Ma i militari la scoprono e risalgono così alla sua identità.

«Fu allora che iniziarono a torturarmi – ricorda –. Mi misero al muro e si divertivano a sparare il più vicino possibile al mio corpo. Ma io non parlavo, ero dura da vincere. Andarono avanti a schiaffi, insulti e minacce per minuti. Finché un militare, stanco, disse agli altri: “Lasciatela stare. Non vedete che è una belva, è inutile”.

Piera viene portata in carcere a Monza: qui rivede il colonnello Dick, nel frattempo tornato in libertà. «Fu quel giorno che mi chiamò come la “biondina della Val Taleggio” e mi propose di passare dalla sua parte – ricorda Piera – ma io non accettai. E in cambio ricevetti altri insulti e torture». Dopo qualche giorno Piera viene condotta nella redazione del «Corriere della Sera», il suo nome è pubblicato e lei additata come soggetto pericolosissimo. Quindi il periodo in carcere a San Vittore (dove passarono anche Montanelli e Mike Bongiorno).

Finché viene caricata su un pullman diretto ai campi di concentramento tedeschi. Ma Piera non si dà per vinta. Rompe un finestrino del bus, si getta e riesce a fuggire con altri partigiani. Cammina per giorni finché riesce a tornare a casa salva: è il 30 dicembre del ’44, due mesi dopo la sua cattura. Finita la guerra viene riconosciuta dal governo come ex patriota combattente. E gli americani la ringraziano con una pergamena: «Nel nome dei governi e dei popoli delle Nazioni Unite ringraziamo Vitali Pierina di avere combattuto il nemico sui campi di battaglia, militando nei ranghi dei patrioti tra quegli uomini che hanno portato le armi per il trionfo della libertà». Firmato: H. R. Alexander, Maresciallo comandante supremo alleato delle Forze nel Mediterraneo centrale.

Oggi Piera, con Angelica «Coca» Casile di Bergamo (classe 1924), è rimasta l’ultima partigiana bergamasca, e anche la più anziana. L’ultima a poter ancora raccontare dal punto di vista femminile quei giorni di lotta, dolore e libertà.

© RIPRODUZIONE RISERVATA