Ricucire Bergamo
partendo dal basso

Investimenti privati e pubblici, ma anche un’anima. Realismo, idee e visione. Passano da qui, da questa difficile sintesi, la tenuta e la rivalutazione delle periferie, il tema caldo delle metropoli e delle città di provincia come Bergamo. Non tutto è una banlieue parigina, non ovunque ciò che sta ai margini si rivela un formidabile deposito di conflitto sociale e di materiale infiammabile, come abbiamo visto in questi anni, però è in questa area fragile che si misura la capacità dei tanti attori di riunire i percorsi della convivenza civile. Bisogna ricucire partendo dal basso, ridando dignità e comprensione ai bisogni della gentecomune, quasi sempre ceti popolari.

Rammendo e rigenerazione, secondo la suggestiva formula di Renzo Piano, illustre architetto e senatore a vita, spiegata in video ieri al convegno a più voci della Fondazione Italcementi. Con quali prospettive e con quali strumenti? Il discrimine, superando qualche astrattezza intellettuale, è il cambio di passo culturale verso pezzi di territorio consegnati all’immagine e alla condizione di degrado e di abbandono: non è più il caso di ricreare altre periferie, ma bisogna costruire sul costruito. «Crescere all’interno, per implosione», dice Renzo Piano. Quindi stop alla crescita per dimensione e via libera alla riqualificazione del costruito, tanto più che zone ad alta densità industriale come la nostra hanno esaurito il territorio disponibile. Profitto e mano pubblica sono parte della soluzione, ma non possono essere il tutto: anche perché il mercato non remunera più di tanto la casa in periferia e le casse delle amministrazioni locali sono ai minimi termini.

Le ragioni del rammendo, di un nuovo approccio, stanno nei fatti. Occorre riportare là, nell’area di frontiera, nei punti nevralgici della promiscuità sociale, il kit di relazioni che crea comunità per fluidificare i rapporti sociali: scuole, chiese, spazi civici e punti d’incontro, politiche urbane di accompagnamento. Non solo le cattedrali dello shopping. Non è una missione impossibile, ma calmierare il disagio richiede un cambio di paradigma: siamo eredi di un periodo storico al capolinea e non abbiamo ancora messo a punto gli strumenti adeguati. Bisogna reinventare qualche formula social al passo con i tempi, in un’Italia che 66 anni fa con il Piano casa di Fanfani ha saputo realizzare una grande opera di riconversione e ricostruzione non più replicabile. Possiamo guardarci in giro e vedere che togliere i ragazzi dalla strada e garantire loro un futuro si può quando «la città si fa con gli altri».

È successo a Harlem, il ghetto afroamericano di New York, dove l’impossibile è stato realizzato da una cooperativa di affittuari che ha fatto rivivere una strada con un effetto trampolino su tutto il quartiere. È successo anche a Milano con le Torri Garibaldi che hanno restituito alla vivibilità un buco nero della città. Prendiamo Bergamo, scelta come caso di studio del progetto di ricerca Bergamo 2.035 condotto dalla nostra università e da quella di Harvard con il supporto della Fondazione Italcementi, dove certo si è lontani dal livello di guardia, ma si può fare di più: 23 quartieri, il 60% della popolazione che vive nelle periferie, la diaspora delle giovani coppie nell’hinterland che alimenta un intenso pendolarismo, la mediocre conservazione di numerose abitazioni, la parabola discendente dei negozi di vicinato, la necessità di rispondere alle attese concrete della gente con microinterventi chirurgici.

Anche qui serve rammendare un tessuto sensibile, affollato da case popolari dove convivono anziani e cittadini stranieri e dove insiste l’urgenza di restituire valore sociale al territorio. Il convegno ha reso evidente la distanza fra le migliori intenzioni e una realtà complessa che va affrontata da più versanti. Per restare a noi, la difficile congiuntura coincide con la lesione delle capacità d’investimento degli enti locali e con una fase delicata per Camera di commercio e banche. Se quasi ci siamo sulla destinazione degli storici contenitori dei Riuniti e della Montelungo, stiamo scontando, con le vaste aree dismesse, l’uscita della manifattura dalla città e siamo ancora alle prese con la vecchia questione del superamento dello scalo ferroviario.

Il quadro italiano, poi, è fatto di incertezza normativa e di tempi (388 giorni la media per la valutazione d’impatto ambientale), di politiche e strumenti urbanistici superati, di «mostri» cresciuti all’ombra della monetizzazione degli oneri d’urbanizzazione, di ambiti scivolosi come le bonifiche dove le aziende non sanno che fare perché appena fanno sono a rischio giudiziario. Quel che conta, tuttavia, stando almeno alle riflessioni degli esperti, è l’affermarsi di un pensiero culturale (architetti, economisti, sociologi) che intende investire sulla rinascita delle periferie per «fecondare luoghi spettrali fra scintille di bellezza e atti di generosità».

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