Riforme poche
e spesso contrastate

La legislatura si era aperta con il segretario del partito di maggioranza appiedato (memorabile lo scorno subito in streaming da Bersani ad opera di una delegazione di spavaldi neo parlamentari grillini). Si chiude ora con il suo successore azzoppato. I rovesci subiti dai due leader sono emblematici del suo percorso tribolato affrontato dalla presente legislatura. Abbandoni di partito: ultimo, il più clamoroso, quello di Pietro Grasso, in uscita da quel Pd che pure lo aveva elevato allo scranno di presidente del Senato.

Cambi di casacca a ripetizione, come mai nella storia repubblicana. Più nessun freno al turpiloquio, prova provata del degrado in cui è caduta la politica. Piazze urlanti contro le autorità costituite, persino contro il capo dello Stato, diffidato ultimamente a non controfirmare il Rosatellum: atto peraltro dovuto. Sono molti e gravi gli indizi che attestano lo stato di sofferenza della nostra democrazia. Lo spettacolo è sconfortante. Riforme poche, in compenso contrastate e divisive: questo potrebbe essere l’epitaffio da apporre sulla sua lapide. Emblematico il destino riservato alla riforma elettorale. Doveva essere la mission del Parlamento. Ci sono dovuti quattro anni e una trattattiva estenuante, prima che il Rosatellum vedesse la luce. Alla fine, inevitabilmente, un compromesso, con l’occhio degli estensori puntato più sui danni da procurare agli avversari che non sui modi utili a redigere una legge che sapesse sfidare il tempo. In venticinque anni sono quattro le leggi elettorali approvate, due per di più bocciate dalla Consulta, quando in altre democrazie (vedi l’Inghilterra o gli Stati Uniti) il metodo di voto non cambia da secoli.

I futuri parlamentari saranno ancora dei nominati. È inoltre praticamente escluso che gli italiani possano conoscere chi li governerà la sera stessa dello scrutinio elettorale. Si è passati da un orientamento favorevole al maggioritario ad uno marcatamente proporzionale senza una seria valutazione dei pro e dei contro. Ci si è mossi un po’ all’impronta, sull’onda degli umori del momento e delle mutevoli valutazioni delle rispettive convenienze. Con poco riguardo anche a non contraddirsi. Come si può, ad esempio, rimproverare al Rosatellum di non favorire la formazione di una maggioranza di governo e al tempo stesso reclamare il proporzionale puro: notorio metodo che procura una frammentazione parlamentare estrema e quindi inevitabilmente i deprecati inciuci?

Una classe politica seria, non osiamo dire di statisti, non cambierebbe le leggi elettorali alla leggera. Soprattutto presenterebbe alla propria opinione pubblica proposte coerenti e non procedere a zig zag, contraddicendo il giorno dopo quello che ha sostenuto il giorno prima. Per anni si è gridato allo scandalo della dissipazione di denaro pubblico procurata da un regionalismo sconclusionato. Dopo il successo dei referendum sull’autonomia di Lombardia e Veneto si è passati a chiedere invece un loro potenziamento, senza ridisegnare l’indifendibile mappa delle attuali regioni, senza istituire un vincolo tra compiti da assegnare e imposte da riscuotere. Senza, insomma, rendere responsabili delle loro scelte di spesa le amministrazioni regionali e senza mettere gli elettori nelle condizioni di giudicare come effettivamente sono state impiegate le risorse finanziarie messe loro a disposizione. Dopo la bocciatura a furor di popolo della riforma istituzionale voluta da Renzi, ci era stato assicurato che in poco tempo (D’Alema ha osato fissarlo addirittura in sei mesi) sarebbe stata approvata una nuova riforma istituzionale: questa, sì, davvero seria. I sei mesi sono ampiamente scaduti. Noi, pazientemente, fiduciosi, aspettiamo.

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