Solidarietà: Bergamo c’è
Ma dov’è lo Stato?

Opere a fin di bene: il termine è spaiato rispetto al sentire che forse va per la maggiore, eppure continua a vivere nella storia e nella cultura di Bergamo. Ne è un esempio la nuova mensa per i poveri alla stazione del Servizio Esodo guidato da don Fausto Resmini, inaugurata lunedì 5 gennaio.

Si raccolgono oggi i frutti di una semina di 25 anni fa, talvolta anche controcorrente, che consente di restituire l’altra Bergamo alla Bergamo di tutti. Una sola città senza soluzione di continuità, dove la ritrovata appartenenza degli invisibili, il riconoscimento e la tutela dei loro diritti di cittadinanza dovrebbero garantire sui rischi di espulsione.

C’è coerenza, uno stretto legame, fra questo esito e la sensibilità di una terra che, almeno nei suoi momenti migliori, sa di avere nel capitale sociale della solidarietà il bene più prezioso. Consapevole anche che la stessa economia non può trascurare i processi d’integrazione sociale e che la stessa politica, per quanto possa e debba fare, non può tutto. Su questo terreno, che chiama in causa la passione civile e pone al tempo della crisi una grande questione democratica di diritti e di doveri, la campanella suona per tutti. Vietato disertare.

Non sfugge il geometrico valore di una mensa posta proprio lì, in quel preciso luogo che è la stazione: capolinea di vecchie e nuove povertà dai profili complessi, di derive sociali di varia natura e anche terreno di una certa incomunicabilità con la Bergamo dei più. Dunque, la mano della Chiesa si porge là dove il bisogno si manifesta: lo sfida sul suo terreno per così dire d’appartenenza, quello più aspro, quasi ad affermare in modo immediato e diretto che quell’universo ai margini è «tra» noi, ma soprattutto è «con» noi. Cercando, nel segno del realismo e della concretezza, di ripristinare i canali di collegamento, dialogo e relazioni fra due mondi chiamati a capire le ragioni degli uni e degli altri: una sopravvivenza dignitosa, come impone la Costituzione, da un lato e una richiesta di sicurezza dall’altro.

Questo capitolo, che ripropone Bergamo come laboratorio avanzato del mondo social, dice anche qualcosa sul governo di una comunità: mentre anche qui siamo esposti ai flussi di una povertà che si radicalizza nel tempo, si avverte però la misura di una cultura che intende porre la cura di queste patologie nell’orizzonte di scelte condivise, chiamando in campo quelle virtù incomprese che sono la mediazione e il semplice buon senso. Un lavoro discreto, al riparo dalle fanfare. E questo modo tutto bergamasco di operare nell’ordinamento civico appare in controtendenza rispetto alle politiche nazionali tuttora insufficienti e inadeguate nel contrasto all’esclusione.

Proprio domenica sul «Sole 24 Ore» il sociologo Cristiano Gori, coordinatore scientifico dell’Alleanza contro la povertà (Acli, Caritas, Forum Terzo Settore, Banco alimentare e tanti altri), ricordava che l’Italia insieme alla Grecia rimane l’unico Paese privo di un piano nazionale contro la povertà e che la spesa pubblica di questo settore è solo dello 0,5% del Pil contro l’1% della media europea. Si sta consumando un paradosso sfavorevole: conosciamo ormai tutto degli ultimi e continuiamo a fare molto poco, con una politica lontana dai tormenti che attraversano i ceti popolari. Integrazione del reddito e nuova Social card sperimentale in alcune aree del Paese dopo aver riscontrato l’impatto modesto della card del 2008, scaricando il fardello sull’ultimo presidio pubblico rimasto in circolazione: i Comuni che, per quanto strapazzati da Roma, restano un caposaldo della coesione sociale (finché reggono). Sappiamo che la povertà assoluta, propria di chi non riesce a soddisfare le esigenze primarie, sta galoppando e coinvolge sei milioni di persone, quasi il 10% della popolazione. Sappiamo pure che l’indigenza ha rotto i confini geografici e dei ceti sociali novecenteschi: sta salendo anche al Nord, catturando profili professionali impensabili.

Renzi con la Legge di stabilità e con il Jobs act ha fatto cose di sinistra e di destra, ma ancora molto poco di mirato per arginare le povertà, i cui titolari non tengono partito, confinati nella lista d’attesa. Difficile, nelle condizioni date, pensare che si riesca a fare oggi quel che si sarebbe dovuto mettere in cantiere 20 anni fa: proporre questa battaglia come una delle priorità e nel frattempo recuperare sette miliardi euro ( il costo a regime del piano nazionale). Sarebbe cosa buona e giusta, ma francamente difficile se non impossibile. Il piccolo mondo di Bergamo, invece, passi avanti li ha fatti, riuscendo talora a rendere possibile l’impossibile.

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