Edoardo Raspelli
sui cibi orobici

Torna Edoardo Raspelli e per la sua puntata d'esordio del nuovo ciclo di Melaverde il 15 settembre su Canale 5, sceglie proprio la Bergamasca. «Perché a questa terra - spiega il critico enogastronomico - mi legano ricordi e suggestioni straordinarie.

Torna Edoardo Raspelli e per la sua puntata d'esordio del nuovo ciclo di Melaverde il 15 settembre su Canale 5, sceglie proprio la Bergamasca. «Perché a questa terra - spiega il critico enogastronomico - mi legano ricordi e suggestioni straordinarie, anche se mi spiace un po' che un'area così ricca e prolifica di giacimenti di cose buone non sappia sfruttarle a pieno».
Raspelli, qual è il suo cruccio?
«Semplicemente dico che Bergamo e la sua provincia meriterebbero maggiore visibilità nell'agroalimentare. E lo dico a ragion veduta, perché conosco bene gli artigiani del gusto che ci lavorano, la loro passione, la grande qualità dei prodotti. Solo che...».
Solo che?
«Non sono bravi a farlo sapere al mondo. In Italia ci sono territori infinitamente meno attrattivi dal punto di vista enogastronomico, che però, vendendosi bene, in questi anni sono diventati la mecca dei golosi di ogni latitudine. Bergamo questo salto di qualità non lo ha mai fatto».
Un problema di comunicazione quindi.
«Non solo. Vorrei che enti, produttori e tutto il comparto facessero più squadra, proponessero maggiori azioni comuni per favorire la conoscenza delle eccellenze. Invece vedo molti muoversi, ma in ordine sparso. Così si perde molta forza propulsiva, spero che per l'Expo mi stupiscano, Bergamo ha tante frecce al suo arco».
Facciamo qualche esempio.
«I formaggi innanzitutto. Su tutti Taleggio, Formai de Mut e Branzi: straordinari. Poi anche lo Strachitunt, che però mi pare troppo di nicchia. Senza contare i caprini, che stanno crescendo molto e che hanno nella Via Lattea di Brignano i più bravi e creativi produttori d'Italia. Per il taleggio in tanti mi avevano parlato dei Taddei: sono entrato in caseificio a Fornovo in incognita, come un normale cliente, ho curiosato, ho assaggiato le varie stagionature, memorabile. Come i "gioielli" di CasaArrigoni a Peghera».
E poi cosa altro?
«L'olio del Sebino, i salumi della Bassa, la farina per polenta, senza contare che Bergamo è diventata una delle capitali della ristorazione, reinventandosi una cucina a base di pesce».
I ristoranti appunto, con loro non è mai stato tenero...
«Con chi non se lo merita sono uno schiacciasassi. Ma ho anche dolcissimi ricordi. Ho pranzato assai bene alla Caprese di Bruno Federico, al Colleoni di Cornaro in Piazza Vecchia, ho riabilitato la Marianna che in passato avevo un po' strapazzato, mi riprometto di far visita al Saraceno, a Cavernago, di cui ho sentito buone cose. Poi ho ancora nella memoria il vocione scultoreo di Vittorio Cerea, quando ti accoglieva nel suo maestoso locale, allora in viale Papa Giovanni, già ricchissimo fin dall'ingresso di cesti colmi di funghi e tartufi. Persino i figli, allora molto giovani, lo chiamavano "signor Vittorio". Una volta gli chiesi il perché, e il patriarca mi disse: "vogliono apparire come miei dipendenti, altrimenti non rimediano la mancia».
Da giovane veniva a Bergamo anche a trovare Veronelli: poi i rapporti si sono guastati...
«Vero, ma a me piace ricordare quando tanti anni fa mi portava a mangiare alla "Pergola" della famiglia Frattini, serate indimenticabili». Ci sarà stato qualche incidente di percorso.. «Anni fa criticai l'Osteria di Via Solata. Può capitare: allora andava molto la cucina ad effetto, quella fatta con ingredienti anche lontanissimi tra loro, costruita per sorprendere il cliente. La crisi ha riportato tutti a una sana concretezza, direi molto bergamasca, anche nei piatti».
L'emozione più forte legata a Bergamo?
«È sempre la prima, quella di San Pellegrino e del suo Grand Hotel, reso immortale da il "Primo amore", film di Dino Risi con Ornella Muti e Ugo Tognazzi. Eppure per me significava soprattutto andare da bambino a trovare un mio vecchio zio, che era il proprietario».
Un Raspelli così indulgente non ce lo ricordavamo...
«Adesso arrivo con rilievi. E mi riallaccio al discorso precedente: il bergamasco resta troppo chiuso in fatto di ospitalità, non scalda i cuori. Occorre fare uno sforzo in più».
Qualche disavventura personale?
«Appunto. Un giorno vengo a Scanzorosciate, incuriosito da questo Moscato di cui mi dicono un gran bene. Giro per cantine e ristoranti, qualcuno riconosce il personaggio televisivo, ma nessuno si avvicina. Alla fine chiedo io un biglietto da visita al titolare di un'azienda vinicola: sembrava gli avessi fatto un dispetto. Logico poi che la gente finisce altrove. Eppure, se la Bergamasca riuscirà ad "addolcirsi", potrà calare un tris d'assi straordinario».
Sarebbe a dire?
«Le tre infrastrutture che cambieranno il suo volto economico e forse turistico: Brebemi, Pedemontana e Alta Velocità. Se poi ci aggiungiamo le potenzialità di Orio, che Bergamo non ha ancora sfruttato a pieno, siamo di fronte a una serie corsie privilegiate per far affluire qui tanti visitatori golosi. A quel punto bisognerà inventarsi qualcosa di forte, perché Città Alta e il lago non bastano più».
Non ha suggerimenti?
«Intanto tra tre settimane farò la mia parte, raccontando in tv con Melaverde la Bergamasca, partendo da Lenna, dove Ferdy e la sua famiglia hanno saputo trasformare una porzione di montagna isolata in un luogo dalle mille risorse. Vacche di razza bruna e capre dalle quali si ottiene latte e formaggio prelibati. E inoltre, lana e fieno trasformati in prodotti per trattamenti di benessere all'interno dell'agriturismo. E poi ho fatto parte di un progetto a cui tengo tantissimo».
Ci dica...
«Sono la voce narrante del nuovo documentario del panettiere-regista Baldovino Midali, un vero inno alla natura e alle bellezze bergamasche e brembane in particolare: sarebbe bello che qualche ente lo utilizzasse per promuovere il territorio».

Maurizio Ferrari

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