Alzheimer, la svolta 
è made in Bergamo

di Alberto Ceresoli
Un inizio subdolo, una progressione lenta ma inesorabile, una fine «avvolta nell'oblio», lontano da sè stessi e dal mondo così come lo si è sempre concepito. Oggi, in Italia, la malattia di Alzheimer colpisce il 5% delle persone con più di 60 anni.

di Alberto Ceresoli
Un inizio subdolo, una progressione lenta ma inesorabile, una fine «avvolta nell'oblio», lontano da sè stessi e dal mondo così come lo si è sempre concepito. In mezzo, la difficoltà di avere una diagnosi certa, e un drammatico percorso di «devastazione» - non solo fisica - per sè e per chi si prende carico di questi malati.

Oggi, in Italia, la malattia di Alzheimer – tra le più diffuse forme di demenza nell'uomo – colpisce il 5% delle persone con più di 60 anni (almeno mezzo milione di malati), ma già nel 2009 l'Associazione internazionale Alzheimer stimava che la popolazione mondiale colpita da demenza fosse di 36 milioni di persone, destinata quasi a raddoppiare ogni 20 anni (66 milioni nel 2030, 115 nel 2050).

Si comincia con un piccolo problema di memoria - dimenticando alcune semplici cose, spesso le più banali, quelle a cui non si da alcun peso - e si finisce col dipendere da tutti e per tutto. Ecco perché l'ipotesi di mettere a punto un vaccino «salva memoria» nei pazienti colpiti da «pre-Alzheimer» ha fatto il giro del mondo.

A scoprirlo il bergamasco Giulio Maria Pasinetti, 55 anni, nato e cresciuto in Borgo Canale, oggi tra i più eminenti scienziati al mondo nella ricerca della cura dell'Alzheimer. Neurologo, neurospichiatra, professore di Neuroscienze e direttore del Centro Alzheimer alla «Mount Sinai School of Medicine» di New York, Pasinetti vive nella «Grande Mela» da più di vent'anni, mettendo a segno continui passi avanti nello studio della malattia, ora sostanzialmente incurabile.

La «svolta» di Pasinetti - ancora a livello sperimentale - sta nelle dosi e nella ciclicità di somministrazione dell'immonoglobulina IVIG, l'«Intra Venous Immuno Globulins», una sorta di anticorpo derivato dal plasma del sangue umano, utilizzato per via endovenosa. Pensandola in grado di intervenire sulla beta amiloide (la proteina cui si attribuisce la formazione delle placche che «s'incollano» sul cervello, provocando la malattia), già da qualche anno gli scienziati utilizzano l'Ivig per curare l'Alzheimer, ma con risultati del tutto inconsistenti.

«Secondo i nostri studi - spiega Pasinetti - l'Ivig non è affatto in grado di inibire il lavoro della beta amiloide, mentre sembrerebbe capace di preservare le funzioni della memoria, purché l'immunoglobulina sia utilizzata in dosi minori e a intervalli di tempo maggiormente ravvicinati».

Lo studio (presentato all'Experimental Biology Meeting di San Diego, in California, e pubblicato sulla rivista della Federation of American Societies for Experimental Biologhy) è stato compiuto su cavie geneticamente modificate in modo da sviluppare una perdita di memoria così come avviene nell'Alzheimer.

Pasinetti e i suoi collaboratori hanno dimostrato che - contrariamente a quanto avviene con i protocolli clinici attualmente in uso - una più prolungata somministrazione di Ivig, ma a dosi di circa 20 volte inferiori a quelle oggi usate nei pazienti di Alzheimer, attenua il decadimento cognitivo.

Gli studi condotti nei laboratori di Pasinetti, e recentemente confermati anche da altri ricercatori, suggeriscono che il meccanismo in grado di spiegare l'effetto benefico della «vaccinazione» Ivig somministrata a basso dosaggio e a lento rilascio nei pazienti con l'Alzheimer, potrebbe essere dovuta ad una serie di risposte immunitarie innescate dal cervello, risposte che sembrerebbero capaci di selezionare prima, e di attivare poi, una serie di mediatori in grado di tenere a bada l'infiammazione che danneggia le funzioni della memoria.

Pasinetti e il suo gruppo di ricerca ipotizzano dunque che l'effetto benefico della vaccinazione Ivig a lento rilascio di anticorpi, somministrata a bassi dosaggi e a intervalli di somministrazione più diluiti nel tempo, sia in grado di attenuare con maggior efficacia le perdite di memoria grazie all'attivazione di alcuni meccanismi immunitari cerebrali a livello molecolare, capaci di mantenere e consolidare (nella memoria, appunto) le informazioni acquisite a breve termine.

Particolare importanza è stata data anche alla tempistica nella somministrazione dell'Ivig per via endovenosa: tre volte alla settimana, cui far seguire una sosta di un mese per poi riprendere il ciclo. Ma la prevenzione? «Nel corso dei nostri studi - spiega ancora lo scienziato bergamasco - abbiamo individuato una serie di evidenze in base alle quali la vaccinazione Ivig somministrata a bassi dosaggi risulta meglio tollerata anche in terapie prolungate, rivelandosi così un potenziale trattamento di eccellenza in quei soggetti caratterizzati clinicamente dalle forme "pre-Alzheimer". Sono loro che potrebbero usufruire della "vaccinazione" in forma preventiva e per lungo tempo, come nella cura di molte malattie croniche, preservando le funzioni della memoria».

Già oggi una serie di biomarcatori associati ad alcuni esami neuropsicologici e allo studio di particolari parametri (come la forma oligomerica e il comportamento della proteina tau fosforilata) sono in grado di «predire» se una persona potrà sviluppare l'Alzheimer, e in quale forma. «È proprio in queste situazioni - sottolinea Pasinetti - che la "vaccinazione" con l'Ivig, usata preventivamente, quando le placche sul cervello non si sono ancora minimamente sviluppate, potrebbe dare risultati importanti».

I trial clinici sull'uomo sono già autorizzati e in fase sperimentale: «È presto per i trionfalismi - conclude Pasinetti - ma la strada imboccata sembra essere promettente».

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