Giovani e soli, ma per scelta
Ecco gli «hikikomori»

Chiudono le porte al mondo, sempre di più e sempre più giovani. Sono gli hikikomori italiani, detti anche «eremiti sociali»: preadolescenti – il rapporto tra maschi e femmine è 5 a 1 – che decidono di chiudersi in casa, spesso davanti al computer, e rifiutare ogni relazione, in primis la scuola.

I motivi sono diversi: non si sentono all’altezza degli standard fisici, delle prestazioni e dei modelli imposti dai media, sono vittime di bullismo o percepiscono la mancanza di opportunità sociali. Il fenomeno è nato in Giappone nella seconda metà degli anni ‘80 (hikikomori significa «rifiuto, isolarsi», un termine riferito sia ai soggetti, sia alla scelta), dove coinvolge oggi circa 1 milione di giovani, che praticano una volontaria esclusione sociale. Non escono di casa, a volte nemmeno dalla propria camera, e rimangono isolati anche per mesi o anni. In Italia assume caratteristiche meno estreme con alcuni tratti simili, come l’allungarsi dell’età di permanenza dei figli nelle abitazioni dei genitori: fino a 28/30 anni secondo Eurostat.

Da noi vivono soprattutto nelle grandi città del nord e sono stimati dai 30 ai 50mila (dati: Istituto Minotauro di Milano), ma in trattamento sono ancora pochi. La dipendenza dal web, in questi casi, assume paradossalmente aspetti positivi, perché le relazioni virtuali diventano l’unica finestra sul mondo. Un fenomeno sempre più esteso, tanto che operatori dei servizi pubblici e del privato sociale sono stati convocati il 19 gennaio a Torino dall’Università della strada del Gruppo Abele, per un corso di formazione mirato alla prevenzione e all’elaborazione di strategie per accompagnare le famiglie. L’episodio della 12enne di Pordenone viva per miracolo dopo essersi lanciata dalla finestra perché vittima di bullismo, è solo la punta dell’iceberg di un disagio giovanile che si va estremizzando.

Gli hikikomori italiani. «In Italia per fortuna abbiamo forme più blande rispetto al Giappone – spiega Leopoldo Grosso, psicologo e psicoterapeuta, presidente onorario dell’associazione Gruppo Abele -: sono connesse sia ad una fobia scolare, dovuta all’angoscia di relazione rispetto ai compagni, sia a fenomeni strutturali, come la mancanza di opportunità di lavoro. L’Italia è inoltre fanalino di coda in Europa rispetto al tempo in cui i figli rimangono in casa». I fattori psicologici sono dovuti principalmente, secondo Grosso, al «prevalere di una cultura narcisistica che ha alimentato la vulnerabilità individuale dei maschi rispetto alla definizione di sé e alla capacità di affrontare la competizione». Ovunque, a livello scolastico, lavorativo, nei rapporti di amicizia, i ragazzi percepiscono un’ansia da prestazione che li fa sentire inadeguati. «Piuttosto di una brutta figura, preferiscono il ritiro».

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