La tragedia in Puglia
e il senso della morte

Capitano momenti della vita in cui sembra che la morte ti insegua. Parenti, amici scompaiono e tu assisti a questi eventi impotente, senza avere parole adeguate per esprimere quello che senti dentro.

In un suo scritto Lévinas diceva che l’esperienza della morte d’altri è essere affetti, colpiti. Non si può comprendere la morte se prima non riconosci che ti colpisce, che entra nella tua vita come ciò che tu non riesci a immaginare, intenzionare, e che pure ti riguarda, perché la morte dell’altro è la sottrazione della relazione di cui tu continui a sentirti parte viva. anche se essa si spegne. Per questo piangi, soffri, gemi senza parole.

In queste ore mi arrivano dai media tante parole sulla tragedia in Puglia. Discorsi sulle responsabilità remote e immediate di quella tragedia. Quelle remote sarebbero di coloro che, pur avendo i soldi per costruire un secondo binario, ancora non sono riusciti a spenderli per le lungaggini terribili che caratterizzano l’azione dello Stato e delle Regioni nel nostro paese. Quelle più immediate riguarderebbero un non ben definito errore umano. Tutte questioni che dovrà risolvere la Magistratura e la Commissione d’inchiesta che il Governo costituirà. Quello che però mi lascia sempre più perplesso è la nostra impreparazione alla morte. Non abbiamo più parole per esprimere questo evento fondamentale che fa parte della nostra esistenza. Dobbiamo chiamare gli “specialisti”, psicologi e sacerdoti, affinché riescano a dirci qualcosa su quello che è tragicamente accaduto.

Accade l’irreparabile, muoiono persone, giovani, adulti, anziani, irrompe nella nostra storia quella condizione, la morte, che trasforma il nostro volto in maschera senza vita, ma noi non riusciamo più a guardare la maschera, dobbiamo parlare subito di responsabilità, mandare persone che hanno tecniche più o meno efficaci per farci stare nel deserto della morte. Abbiamo bisogno di fare e di agire perché l’azione più grande, quella del morire, non ci appartiene più, l’abbiamo emarginata dalla nostra vita. Non voglio dire che non sia importante agire per evitare tragedie del genere, e nemmeno che il conforto in certe situazioni sia inutile. Intendo dire che, spesso, tutto il nostro darci da fare tende a nascondere l’evento radicale della nostra vita, l’istante nel quale si rivela la nostra radicale finitezza e fragilità, ma anche la nostra grandezza. Sentirsi affetti dalla morte, gemere, piangere, imprecare come Giobbe, è già un modo umano per non nascondere il fatto che noi siamo chiamati a rispondere alla morte, con tutto ciò che noi siamo.

Lasciateci piangere, lasciateci gemere, lasciateci guardare in faccia a questa dimensione della nostra vita. Consentiteci con il nostro dolore di indicare discretamente l’insostituibilità del rapporto che abbiamo perso con la morte delle persone a cui abbiamo voluto bene e che ci hanno voluto bene, come si comprende dalla morte della nonna che ha salvato il nipote con il proprio corpo. Lasciateci questo tempo di gemito e di silenzio. Arriverà il tempo della parola, della ricerca di responsabilità, delle riflessioni politiche. Ora rimane il fatto che nel tempo ha fatto irruzione la morte e io desidererei non essere distratto da polemiche o informazioni, preferirei, almeno ora, silenziosamente ascoltare e unirmi all’impotenza di coloro a cui non resta che piangere.

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