«Mio padre deportato ad Auschwitz»
La storia di Guido Valota di Bariano

In un libro la storia di Guido Valota, operaio di Bariano ucciso dai nazifascisti sulla strada per Mauthausen, in Austria. Il figlio Giuseppe racconta: «Sono riuscito a ricostruire la sua fine grazie ad Adamo Sordini che era con lui e si è salvato»

Mio padre Guido era nato a Bariano nel dicembre 1905». Comincia così il racconto di Giuseppe Valota, 69 anni, origini bergamasche anche da parte di madre («era di Roncobello, in alta Valle Brembana»), presidente dell'Aned (Associazione nazionale ex deportati).

La storia di Guido Valota, deportato in Austria dai nazifascisti, è ora consegnata anche ad un libro: Binario 21. Un treno per Auschwitz, di Stefania Consenti, giornalista de Il Giorno (prefazione di Ferruccio de Bortoli, Edizioni Paoline, pp. 160, euro 13). Il figlio Giuseppe, infatti, l'ha raccontata agli studenti del Polo scolastico Lorenzo Lotto-Federici di Trescore Balneario. Che, a loro volta, con altri studenti lombardi, hanno partecipato ad un «Viaggio della Memoria», nel gennaio 2009, da cui il libro prende le mosse.

In treno, sino ad Auschwitz, partendo dal «binario 21» della Stazione Centrale di Milano. Un binario sotterraneo, che veniva usato per il carico di merci e di animali, da cui, nel gennaio del 1944, 605 persone erano state portate ad Auschwitz. Ne sopravvissero solo 20.

«Mio padre – ci racconta ancora Valota – era emigrato a Sesto San Giovanni, lavorava alla Falck. Poi si trasferisce alla Breda Aeronautica. Viene arrestato la notte fra il 13 e il 14 marzo 1944, a seguito della grande ondata degli scioperi operai, che, in quel mese, hanno coinvolto il Centro-Nord. A molti altri è toccata la stessa sorte. Ho calcolato che, a Sesto, sono stati arrestati circa 220 lavoratori. Tra Milano e provincia, almeno 500. Finisce a San Vittore, poi viene mandato a Bergamo, alla caserma che allora si chiamava Umberto I». Oggi Montelungo.

«Era usata come carcere. Avevano tentato di metterli a Sant'Agata, ma non c'era posto, allora li hanno riportati giù. A Bergamo sono stati concentrati altri lavoratori del Nord. Da lì sono partiti nel pomeriggio di venerdì 17 marzo 1944. Sono passati per le vie del centro, sono entrati dalla porta carraia della stazione, li hanno caricati sui vagoni piombati di treni merci. Un trasporto, secondo le immatricolazioni del campo, di 564 persone. Qualcuno è riuscito a scappare. Sono arrivati a Mauthausen il 20 marzo. Lì mio padre non rimane molto. Quattro giorni dopo viene trasferito a Gusen, a quattro chilometri di distanza. Lì sta meno di un mese. Lui e moltissimi altri vengono trasferiti a Schwechat, poco a sud di Vienna, dove ancora oggi c'è l'aeroporto. Lì resta fino al 26 giugno. Quel giorno l'aeroporto viene bombardato, ci sono dei morti, fra i soldati tedeschi e fra i deportati. Viene trasferito a Floridsdorf, sempre nei pressi di Vienna, ove rimane fino al 31 marzo 1945. Mio padre è stato ucciso nella marcia di trasferimento tra Vienna e Mauthausen», dove i prigionieri, nell'ormai imminente disfatta nazista, dovevano tornare per ordine di Himmler. La «marcia della morte».

Duecento chilometri a piedi. «Facendo strade secondarie, anche in mezzo ai prati, per non ostacolare la marcia dei militari tedeschi, che da est rientravano verso ovest. Dormendo all'addiaccio, come animali. Otto giorni di marcia. Ha piovuto per sette giorni consecutivi, come risulta dalle ricerche dell'Ufficio Meteorologico di Vienna. La fine di mio padre mi è stata raccontata da un altro deportato, Adamo Sordini, che lavorava all'Innocenti di Milano. Sordini ricordava una cittadina con due fiumi e due ponti, ma non ne conosceva il nome. Alla fine del secondo ponte mio padre non ce l'ha più fatta. Gli altri hanno cercato di tenerlo in piedi ma non c'è stato niente da fare. I soldati gli hanno sparato alla nuca, gli hanno tolto le matricole dalla divisa perché non fosse più identificabile: era la prassi».

«È stato lasciato lì – continua –, ai bordi della strada, mentre la marcia proseguiva. Ho fatto lunghe ricerche. Ho scoperto che la cittadina con due ponti e due fiumi tra Vienna e Mauthausen non può essere che Steyr, a sud di Linz. Ho trovato anche il luogo esatto dove gli hanno sparato. Ho voluto sapere dove fossero i suoi resti. Dato che a Steyr c'era un campo di concentramento ho pensato l'avessero portato lì e sepolto in fosse comuni. Invece ho scoperto che, già dagli anni Venti, c'era un forno crematorio non nel campo, ma nella città. Al cimitero di Steyr c'è un monumento con 350 urne senza nome che contengono i resti di persone bruciate in quel crematorio. Persone di cui non si sa nulla. Lì dentro, al di là di ogni ragionevole dubbio, ci sono anche i resti di mio padre. Due anni fa abbiamo deposto una lapide, in italiano e tedesco, sotto una grande pianta vicino al monumento, con incisi il nome suo e di un altro deportato italiano suo amico, l'ingegner Pericle Cima della Tosi di Legnano. Sono caduti a cento metri l'uno dall'altro. Sono uno dei pochi fortunati che ha potuto ricostruire la storia di suo padre».
Vincenzo Guercio

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