«Gleno», il nuovo album del Bepi
dedicato alle vittime della diga

L’ultima preghiera di un vecchio. Sotto la diga della vergogna. L’ultima invocazione, «Signore, Signore! Lasciatemi qui ancora un po’, Signore! Non si vede molto spesso la nebbia a Vilminore. Poi c’è un vento che non ho mai sentito e che ti porta via, è meglio che mi sbrighi, è meglio che torni a casa. Oggi è sabato, 1 dicembre... sono le sette e un quarto». Il mostro di archi e cemento è crollato, il fragore di sei milioni di metri cubi d’acqua squassa l’udito per pochi istanti e scorre via lungo l’assolo di una chitarra lancinante, pinkfloydiana.

Il pubblico che riemerge da quell’onda anomala di emozioni non potrà più dire che non sapeva bene, che al massimo aveva sentito raccontare qualcosa o letto di sfuggita. Il disastro del Gleno ritorna davanti ai nostri occhi ottantasei anni dopo, nelle testimonianze dei sopravvissuti proiettate prima e alla fine della canzone, nelle foto in bianco e nero che scorrono durante: la costruzione dell’imponente sbarramento artificiale, le immagini della vita quotidiana in Val di Scalve, il costruttore Virgilio Viganò, la scia di morte e distruzione che raggiunge la Valle Camonica, le lapidi nei paesi travolti quel tragico autunno del 1923.

Sul palco il Bepi si intravede appena mentre canta: è un fantasma che dà la parola a un vecchio, personaggio immaginario che racchiude in sè tanti volti di quei giorni ed è a un tempo protagonista e voce narrante che incarna la memoria dell’immane sciagura. Un vecchio che indugia nella chiesa di Bueggio poco prima che venga spazzata via dalla furia del torrente gonfiato dal cedimento della diga. Ricorda lo stupore di quando seppe che le prime turbine di Galeazzo Viganò (il padre di Virgilio) avevano portato la luce, accendendo «i boccettini» (le lampadine) nelle case. Ma l’angoscia comincia a prendere il sopravvento perché l’ingegner Gino Consigli si fa da parte, denunciando che Virgilio Viganò «mette il naso nei miei lavori senza averne la necessaria competenza e di questo passo farà danni».

Il pensiero corre ai minatori della valle, cavatori di ferro come suo padre, come lui e i suoi fratelli. Rivolge al Signore la sua preoccupazione per i parenti giù ai forni del Dezzo. Trema perché sa che qualcuno è già scappato su a Colere e ad Azzone, piove in continuazione, il lago si sta alzando, nel muro della diga si sono formate crepe grandi così e l’acqua esce impetuosa. Il guardiano l’ha capito subito: «Non è normale!». Preceduto dal suono del torrente e dal violoncello di Flavio Bombardieri (cugino del fiatista Guido), il canto solenne del Coro Luca Marenzio di Darfo («non a caso: le ultime vittime del disastro furono nella frazione Corna») apre e chiude in latino, la lingua che più ci avvicina a Dio, la canzone «Gleno» che dà il titolo al nuovo album di Bepi & The Prismas, mentre sul maxischermo viene finalmente svelata la copertina del cd con le rovine della diga.

Quasi undici minuti, tutto il tempo solitamente riservato ai bis, «col nodo in gola anche per noi che suoniamo»: il toccante omaggio alla Val di Scalve e al dolore che ne ha marchiato la coscienza è il colpo di teatro che il cantante di Rovetta, ancora una volta sorprendente, ha regalato alla platea del Live club di Trezzo, lunedì sera, per ricompensare i fan dopo un anno e mezzo di attesa. Più lunga del solito rispetto ai precedenti album di inediti. Ma ne è valsa la pena. Il Bepi, artista sempre più maturo e in sintonia con se stesso, cioè Tiziano Incani, dimostra che può alzare il tiro senza perdere l’identità. Anzi, invita a seguirlo in questa sua evoluzione che non rinnega il gioco e l’ironia ma si rende conto che è venuto il tempo di andare oltre.

«Sentivo il dovere di non indietreggiare dopo "Pase zo" (brano pubblicato nel 2008 e dedicato ai morti sul lavoro, ndr) – ammette –. Una sera stavo guardando in tv un servizio sul Vajont e riflettevo su come la povera gente non conti mai nulla, anzi subisca le scelte dei potenti senza riuscire a mettere becco. Mi son chiesto che cosa ci fosse di paragonabile da noi. Il disastro del Gleno». Una catastrofe a orologeria che si doveva evitare e invece «ha ucciso centinaia di persone e colpito al cuore la vita e l’economia di una valle che grazie alle sue risorse, minerarie e umane, godeva di una sorta di autosufficienza». Dopo la cronaca di "Pase zo", il Bepi si è confrontato con la Storia, quella con la S maiuscola, per «scoprire» che certe responsabilità e certi errori si ripetono nell’attualità (si pensi alle recenti frane nel Sud Italia) e ci vanno sempre di mezzo le popolazioni, quella gente che, come il vecchio nella chiesa di Bueggio, «il parere, mio e degli altri, non l’ha chiesto nessuno».

Nel dvd della Comunità montana, curato da Officine Video, «mi ha colpito profondamente una donna di Darfo che dichiara: "Non avevamo mai saputo che ci fosse una diga in Val di Scalve". Immagino lo stupore degli stessi scalvini, montanari che non erano abituati a vedere una distesa d’acqua tanto vasta come il bacino artificiale del Gleno. Come se gli avessero portato il lago o il mare sopra le case». Il Gleno è diventato così l’idea fissa che avrebbe segnato il nuovo disco, spezzando la catena dei numeri nella titolazione (unica concessione il 6 composto tra erba e sassi con un artificio grafico nell’anta nascosta dell’elegante confezione cartonata del cd). «Volevo cantare questa tragedia senza mancare di rispetto a una valle orgogliosamente chiusa eppure capace di offrirmi tutta la collaborazione di cui avevo bisogno. Per la delicatezza del tema e per il timore di commettere inesattezze».

In nome di questo scrupolo il Bepi ci ha messo un anno di lavoro, «non solo sulla mia chitarra ma soprattutto sui libri, al computer, andando in giro per i paesi a raccogliere informazioni». Sull’album, patrocinato dalla Comunità montana, è riportata una lista di ringraziamenti. Per dire la pignoleria del Bepi: è andato da Emy Bonicelli, insegnante scalvina, per lavare il suo bergamasco in Povo e in Dezzo e scrivere il testo della canzone nel dialetto di Vilminore. La musica è stata trattata con altrettanta cura: il coro, il violoncello, ma anche la viola di Marco Lorenzi si affiancano ai Prismas in questa canzone di stampo cantautorale che in quel «Signùr, Signùr!» evoca l’attacco e l’incedere della Van Loon di gucciniana memoria (1987).

La mestizia di "Gleno" potrebbe rivelarci una visione pessimistica del mondo, il Bepi confessa che per un verso è così ma non rinuncia alla speranza nella strofa in latino («composta con l’aiuto del dottor Pietro Paladini, ex primario di Ortopedia al San Biagio di Clusone») che apre e chiude la canzone, con i fiumi che scorrono liberi e l’acqua fonte di nuova vita. «Oggi la piana del Gleno è bellissima, è tornata come prima che costruissero la diga. Non ispira più brutti pensieri. Quasi che una legge divina abbia voluto ristabilire l’ordine naturale delle cose contro una forzatura dell’uomo. Se la osserviamo sotto questa luce, l’acqua non rappresenta più la morte e la distruzione di quel primo dicembre. L’acqua si è ripresa il suo valore di elemento alla base della vita».
Andrea Benigni

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