Dal voto dei 18enni
maggioranze «gemelle»

Dunque alle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento gli elettori del Senato dovranno avere la stessa età minima di quelli della Camera, che è di 18 anni, non più 24 come stava scritto nella nostra Carta. Gli effetti di questa modifica - di cui l’opinione pubblica italiana si è interessata poco o punto, emersa dalla nebbia parlamentare all’improvviso, mentre gli italiani erano impegnati in problemi più gravi - sono molto più complessi di quel che si crede a prima vista. L’assemblea, con 178 voti favorevoli, 15 contrari e 30 astensioni, ha approvato in seconda deliberazione il disegno di legge costituzionale che modifica l’articolo 58 della Costituzione. Le due Camere avranno, in tal modo, identica base elettorale. La prima conseguenza è che produrranno maggioranze politiche «gemelle», a meno che dentro l’urna un elettore non soffra di «bipolarismo» politico, votando per il partito X al Senato e per il partito Y alla Camera (può succedere solo nel caso voglia assegnare delle preferenze).

Ma è una caso di sdoppiamento raro. Dunque anziché diversificarsi, i due organi legislativi si avvicinano ancor di più, sempre più parificati, sempre più simili a una sola Camera. Se pensiamo che l’ultimo tentativo di riforma costituzionale, poi bocciata dal referendum, quella di Renzi, aveva configurato un assetto completamente differente, assimilabile a una sorta di Camera per le Regioni, c’è da riflettere. Ha ancora senso il bicameralismo? Certo tutto questo andrà in direzione di una maggiore stabilità politica perché non ci sarà più il problema di due maggioranze differenti alla Camera e al Senato. Ma non è detta ancora l’ultima parola perché sulla strada di questa riforma manca ancora il referendum confermativo, in quanto alla Camera nelle votazioni sono mancati i due terzi dei voti. Si tratta di una riforma tormentata e controversa.

C’è infatti chi sostiene che insieme all’elettorato «attivo» si sarebbe dovuto pensare all’elettorato «passivo», ovvero ai senatori, la cui età minima rimane di 40 anni. Ma se si abbassasse questo limite e lo si parificasse a quello della Camera, che è di 25 anni, che senso avrebbe il Senato, a cominciare dal nome, che deriva da «senex», che in latino significa vecchio? Da quando è nato, con potere consultivo e poi effettivo a seconda delle alterne vicende storiche (come quella tra gli «ottimati» e i «populares»), ha sempre rappresentato la voce dei «patres», dei più anziani e «saggi» della comunità politica. Tanto è vero che il suo progenitore più antico è la «gerusia», il consiglio dei vegliardi che collaborava col re (le più note erano a Sparta e a Cartagine).

Nell’Ottocento ha finito per rappresentare le classi emergenti della nobiltà e soprattutto della borghesia. Tornando al nostro tempo, una delle proposte di modifica costituzionale vorrebbe abbassare l’età passiva dei senatori a 25 anni, come quella dei deputati, e portare quella di quest’ultimi a 18 anni, l’età in cui si prende la patente di guida. Durante il dibattito si è anche detto che la riforma va a interagire con la riduzione dei senatori, che come ricordiamo ha portato il numero dei laticlavi da 315 a 200. Un salto in avanti (o indietro) «giovanilista» che non è male, che però contrasta con l’innalzamento della vita media, che non è 60 anni, quando venne promulgata la nostra Costituzione del ’48, ma di 80 e passa anni. Senza entrare nel dibattito a gamba tesa, possiamo comunque dire che votare a 18 anni per il Senato potrebbe essere l’inizio di un tempo nuovo, di una nuova responsabilità per i giovani. Perché non c’è nulla di meglio per responsabilizzare un giovane che affidargli una responsabilità. Significa informarsi, studiare, appassionarsi al dibattito delle idee. Speriamo che accada proprio questo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA