Il leader che vedeva molto lontano

È difficile ricordare un politico che abbia dato al proprio Paese uno scossone paragonabile a quello che Shinzo Abe, ucciso durante un comizio da un ex militare probabilmente squilibrato, ha dato al Giappone negli anni della sua premiership. Nipote di un primo ministro (Nobusuke Kishi, in carica dal 1957 al 1960) e fratello dell’attuale ministro della Difesa Nobuo Kishi, Abe era stato il più giovane premier nella storia del suo Paese quando, nel 2006, era salito in carica per la prima volta. E con il secondo mandato, durato dal 2012 al 2020, era diventato anche il più longevo.

Fu il secondo periodo, ovviamente, a segnare maggiormente la qualità della sua iniziativa politica, espressa soprattutto in due direzioni. La prima fu quella dell’economia, con il varo nel 2013 di una politica espansiva così identificata con lui da essere denominata «abenomics». L’obiettivo era far uscire il Giappone dal lungo periodo di stagnazione in cui si era adagiato. E la strategia scelta da Abe fu sorprendente e innovativa: valore dello yen tenuto basso per competere meglio, nelle esportazioni, con Cina e Corea del Sud; forte aumento della spesa pubblica, arrivata a contare per quasi il 12% nel debito pubblico; una serie di iniziative per disincentivare il risparmio e incentivare i consumi. Su tutto, l’idea che l’inflazione sarebbe corsa più veloce dei salari, ma che il clima di competitività e di nuove opportunità nel medio periodo avrebbe comunque migliorato la situazione generale.

Quando Shinzo Abe si dimise per motivi di salute (ma anche per le polemiche sulla gestione del Covid e per qualche scandalo di personaggi a lui vicini), nel 2020, la scommessa era vinta a metà. Il Giappone si era rimesso in moto, a dispetto di una popolazione anziana (46 anni l’età media, la più alta del mondo) e poco incline ai consumi, ma al prezzo di un fortissimo indebitamento collettivo che richiese, nel 2014 e nel 2019, un drastico aumento delle tasse.

La seconda direzione dell’esperienza di primo ministro di Abe, quella forse più importante, è stata l’affermazione di un Giappone orgoglioso e potente, e non più disposto a sopportare l’immagine di Paese sonnacchioso e gregario di cui a lungo era sembrato accontentarsi. Abe, nazionalista e conservatore, si è a lungo battuto per cambiare l’articolo 9 della Costituzione che fu in pratica scritta dagli occupanti americani alla fine della Seconda guerra mondiale. In particolare l’articolo 9 che impone al Giappone il ripudio del «diritto sovrano all’uso o alla minaccia della forza» e la rinuncia perpetua alle forze armate. Non ci riuscì, e ancora oggi l’opinione pubblica giapponese si mostra molto riluttante ad abbandonare l’ancoraggio pacifista. Riuscì però a far adottare al Paese una postura più decisa, a rafforzarne le capacità militari, a far approvare leggi come quella sul «diritto all’autodifesa collettiva» e sull’aiuto militare a un alleato sotto attacco che comunque cambiavano il vecchio atteggiamento e lo rendevano più adeguato alle nuove sfide, soprattutto quella della Cina.

Fedelissimo all’alleanza con gli Stati Uniti, Abe non esitò a prendere iniziative autonome fino a varare con la Russia un mini-disgelo sulle Isole Kurili, il cui status è disputato da decenni tra i due Paesi, e collaborazioni economiche di peso, soprattutto nel settore dell’energia, che stanno andando in frantumi solo in queste settimane a causa della guerra in Ucraina. Di certo da questo punto di vista Abe fece di tutto per integrare il Giappone nel sistema di difesa euro-atlantico. Piaccia o non piaccia l’idea, non si può negare che avesse visto molto lontano.

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