Ora Conte affronti
l’incognita programmi

In pochi giorni Giuseppe Conte scioglierà la riserva con cui, secondo la prassi, ha accettato l’incarico del capo dello Stato di formare il nuovo Governo. Il presidente del Consiglio uscente e rientrante non avrà neanche il fastidio di fare gli scatoloni: nel suo ufficio tutto - se le cose andranno come dovrebbero - procederà come nei passati quattordici mesi. L’unico particolare diverso è che la maggioranza che dovrà (dovrebbe) sorreggere il nuovo governo da Conte presieduto è opposta a quella che sosteneva il precedente esecutivo, sempre da Conte guidato. Per questa ragione politico-cromatica (da governo giallo-verde a giallo-rosso) l’avvocato foggiano ha confessato, nelle dichiarazioni al Quirinale dopo l’incarico, un certo qual disagio personale – subito però superato dalla consapevolezza, «sgorgatagli da profondo», «di operare per il bene degli italiani».

Conte però deve chiarire a se stesso, ai grillini e ai democratici, soprattutto ai democratici, che tipo di presidente vuol essere. In versione giallo-verde era un «garante» del Contratto tra Salvini e Di Maio: per quanto voluto su quella poltrona dal M5S, si presentava come un tecnico «super partes», una specie di notaio che nel tempo ha saputo ritagliarsi un ruolo da protagonista con una abilità che oggi gli sta consentendo di rimanere in sella.

Adesso però il presidente della Repubblica gli ha conferito un mandato pieno per formare un governo «politico», e dunque lo ha trattato come un presidente, giustappunto, espressione di una parte politica, non più un semplice mediatore strappato alla professione. La cosa è importante per varie ragioni. La prima, come tutti ormai sanno, è che a seconda di come si qualificherà il presidente, si deciderà chi dovrà fargli da vice. «Se c’è un grillino numero uno, ragiona Zingaretti, deve esserci un democratico numero due». Ineccepibile. Però Di Maio ancora non se ne è convinto, vuol restare lui vicepremier, e la grana non è piccola. Non è un mistero che Conte medesimo desidererebbe rimanere da solo a Palazzo Chigi, senza vice a controllarlo, sia pure con una veste «istituzionale» e «internazionale» che gli farebbe persino aspirare alla successione di Mattarella nel 2022. Quanto alla spartizione dei ministeri, i lotti spettanti a grillini e democratici dipenderanno proprio da come si sistemerà il vertice del governo.

Seconda questione ancora da risolvere: il programma. Non si è fatto finora un solo passo in avanti su questa strada. Anche perché la questione delle cose da fare negli ultimi giorni è stata abbastanza negletta nelle trattative tra Pd e M5S, in ben altre questioni affaccendati: si sono tenute un paio di brevi riunioni tra i capigruppo buone soprattutto per le fotografie. Ma adesso c’è da sbrigarsi. Se non altro perché ci sono scadenze importanti, come quella dell’Ilva che il 6 settembre potrebbe fermare l’attività se non saranno soddisfatte le richieste sull’immunità fatte dalla proprietà franco-indiana al governo. Richieste su cui democratici e grillini la pensa(va)no in modo opposto.

La priorità numero uno è comunque la manovra economica 2020 con tanto di aumento dell’Iva da evitare. Ma la circostanza assume in queste ore un aspetto meno drammatico di qualche giorno fa. Un po’ perché lo spread cala e la borsa sale. Un po’ perché da Bruxelles hanno promesso al costituendo governo che sapranno «ricompensare» l’Italia per lo sforzo fatto. Lo sforzo che la Commissione riconosce è l’aver allontanato la Lega dalla stanza dei bottoni e riportato i sovranisti all’opposizione. Salvini medita vendetta, fa ammenda degli errori tattici commessi e fa sapere che si considera già in campagna elettorale: il 19 ottobre leghisti in piazza contro il «patto delle poltrone».

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