Lingua morta

Già feriti dagli insistenti tour estivi di Mal (senza Primitives), gli Anni Sessanta sono ufficialmente morti ieri, in coincidenza con la dipartita del «Più Grande», alias Muhammad Ali, alias Cassius Clay.

Potremmo anzi paragonare l’evenienza all’epilogo di un match di pugilato, sport nel quale Ali primeggiava e primeggerà sempre: si era autoincoronato il Migliore e, per una volta, tanta sicurezza di sé era perfettamente giustificata. Con lui, scompare precisamente il carattere di quel decennio: insofferente alle regole, arrogante, verboso al punto da cadere nel delirio, straordinariamente eccitante.

La fine di Ali è dunque inevitabilmente simbolica: con il passare degli anni la leggenda degli Anni Sessanta si è indebolita colpo su colpo, così come si è ammalato il corpo del suo Campione. A ridimensionare il gigante nel ring, un morbo terribile come quello di Parkinson, a sbiadire il mito di quel decennio una specie di revisionismo che, se in parte giustificato e storicamente preciso, è stato anche tenuto a lungo in ostaggio da vere proprie riscritture reazionarie. Il pugilato stesso è morto: ammazzato dalle mafie e dalle scommesse che, per un certo periodo, avevano contribuito a renderlo grande.

Restano i filmati di Ali: le scene dei suoi superbi match, le immagini delle sue tirate buffonesche, le interviste nelle quale osava mettere in discussione l’indiscutibile, ovvero il primato dell’uomo bianco, il suo dettar legge e morale in ogni campo, fosse politico, sociale o religioso.

Resta anche il libro di Norman Mailer «Il Combattimento», moderno epinicio scritto da un autore pieno di sé per uno sportivo altrettanto smisurato. Anche se il racconto prende spunto dal match di Kinshasa del 1975, vi si ritrova tutta l’inedita esaltazione degli Anni Sessanta: i suoni, l’impazienza, la spiritualità. Perfino il sapore del sangue. Vien voglia di rileggerlo subito, se non fosse che nelle sue pagine troveremo, da ieri, una lingua morta.

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