«La vaccinazione di massa non serve»

Vaccinazione pediatrica di massa contro l’influenza ormai alle porte? No grazie. Il direttore generale dell’Asl di Bergamo, Silvio Rocchi, prende le distanze dal presidente della Società pediatrica italiana, Francesco Tancredi (secondo cui sarebbe utile vaccinare tutti i bambini d’Italia al di sotto dei 10 - 12 anni d’età), preferendo invece sottoporre a vaccinazione i soggetti più a rischio, quelli cioè alle prese con particolari patologie - l’asma piuttosto che la bronchite cronica o una cardiopatia congenita - nel cui organismo una malattia come l’influenza potrebbe poi degenerare in problemi più seri. Per la verità un contatto tra l’Asl e i pediatri di libera scelta ai fini di organizzare sul campo una massiccia campagna vaccinale nei bambini, in particolare per quelli maggiormente esposti al rischio, c’è stato, ma poi non se n’è fatto più nulla. «A conti fatti - spiega Rocchi - mi sembra un consumo inutile di risorse finanziarie per il semplice motivo che le vaccinazioni dei bambini a rischio le abbiamo sempre fatte noi dell’Asl, nei nostri Distretti, su segnalazione degli stessi pediatri. Lo scorso anno ne abbiamo vaccinati 1.648, ma se quest’anno fossero di più, anche il doppio o il triplo, sempre su indicazione degli stessi pediatri, che ne documentano e ne certificano la gravità, non avremmo particolari problemi nell’eseguirle, avendo messo precauzionalmente da parte circa cinquemila dosi appositamente per loro».

E in Bergamasca? Luigi Greco, segretario provinciale della Federazione italiana medici pediatri, dà un giudizio equilibrato: «Che la vaccinazione sia utile in tutti i bambini a rischio (nella nostra provincia potrebbero essere 6 o 7 mila) è fuor di dubbio, mentre ho più di un dubbio sul fatto che la vaccinazione di massa serva. Credo invece abbia una sua utilità la vaccinazione in soggetti che entrano precocemente in comunità, nelle scuole materne ad esempio. L’Organizzazione mondiale della Sanità dice che sono da considerare a rischio tutti i bambini tra i 6 e i 36 mesi, ma studi recenti dicono che le cose non stanno in questi termini: manca univocità e il tema va approfondito, ma di certo non è il caso di fare allarmismi inutili. Se però il problema viene visto sotto altri aspetti, ad esempio quelli economici, le prospettive cambiano, almeno stando ai primi risultati, ancora in attese di conferma, di uno studio di farmacoeconomia da poco conclusosi negli Stati Uniti».

(04/10/03)

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