La grammatica? Un'opinione
Regole ignorate anche al liceo

A volte si sfiorano le vette dell’assoluto: come il leone diventato l’eone. Più spesso sono «h» ondivaghe, incertezze di scienza e coscienza, piogge di apostrofi. Dalle elementari all’università, la grammatica non è in cima ai pensieri degli studenti bergamaschi.

Lo studio dell’italiano in genere, segnalano i docenti, sembra appiattirsi, prosciugarsi in una sorta di vocabolario basico, rigido: un linguaggio - Lego. Gabrio Pieranti insegna nel biennio del liceo scientifico Mascheroni: «Due settimane fa - racconta - ho fatto una micro inchiesta in una prima. Il 30% dei ragazzi, nelle medie, non aveva mai letto un libro a scuola. Molti studenti non capiscono neppure perché si debba leggere e trovano incredibile che qualcuno si diverta con un libro. Il risultato è che mancano di lessico, cioè faticano con le parole. Adesso cerco di spiegare tutti i termini che uso durante la lezione. Per quanto riguarda l’ortografia, non è eccelsa. Tempi e modi dei verbi, difficoltà a coniugare e usare il passato remoto. Il correttore ortografico del computer fa danni perché allenta la sorveglianza su quello che si scrive».

«Non capiscono le parole e impiegano molto tempo a leggere una pagina. In queste condizioni - nota Oriella Della Torre, insegnante dell’istituto Agrario - studiare diventa davvero un supplizio». Il lessico povero viene riscontrato come il «dato di partenza» della stragrande maggioranza degli studenti in tutte le scuole superiori, licei compresi. Qui, le carenze si rivelano nel rapporto con il latino: «Se dici stultitia, ti traducono "stoltità": stoltezza non l’hanno mai sentito - esemplifica con ironia un docente di italiano e latino - sono saltati i ponti lessicali, la capacità di intercettare le parole».

Marcella Lombardo, già docente di italiano in diversi istituti statali cittadini e ora docente di supporto (per l’italiano) in un istituto privato, arriva alla radice della questione: «La lingua è il mezzo con il quale vengo introdotto nel mondo e acquisto la capacità di padroneggiarlo. La grammatica è il mezzo con il quale capisco che la lingua è un sistema e che questo sistema mi serve per ragionare. Se non riusciamo a trasmettere agli studenti questa consapevolezza del legame tra parola e pensiero, ogni sforzo per imparare le regole avrà vita breve. Il tempo, però, non è molto. Alla fine della terza media i giochi son fatti. Si può ancora lavorare sul biennio delle superiori, correggere qualcosa nel triennio, ma, a diciott’anni, l’universo linguistico è pressoché completo».

È d’accordo il linguista Giuliano Bernini, docente alla facoltà di Lingue straniere dell’Università di Bergamo: «La capacità di apprendere nel profondo una lingua diminuisce drasticamente dopo la pubertà. Nel caso dell’italiano noi abbiamo un livello di conoscenza nativa, cioè di apprendimento inconsapevole e un livello di apprendimento formale che ha a che fare con la scrittura e con l’uso sociale della lingua. Questo è il livello che interessa la scuola. Non sono così pessimista sull’ortografia: in facoltà abbiamo corretto tutte le prove dei 400 studenti iscritti a un appello. Quaranta studenti hanno fatto uno o anche due errori (una sessantina in tutto), ma legati soprattutto alle fretta di scrivere e all’apostrofo. Sui congiuntivi e i periodi ipotetici andrei piano: la lingua muta, ci sono usi personali e regionali. Piuttosto, ciò che mi preoccupa è l’appiattimento dei registri del linguaggio e l’omologazione degli interlocutori. Il linguaggio sciatto è diventato l’unico modo di esprimersi e la scuola fa quel che può. Tuttavia, all’università gli studenti dovrebbero arrivare con capacità linguistiche già abbastanza raffinate, perché vanno a studiare su testi specialistici, si preparano a una professione, devono essere in grado di comprendere velocemente testi complessi e di organizzare comunicazioni che facciano giungere all’altro esattamente il loro pensiero».

I docenti non si scagliano però sulla comunicazione elettronica: «Le semplificazioni degli sms sono dovute al limite tecnico del numero di bit, nessuno si è mai scandalizzato dei telegrammi» dice Bernini. Si nota per esempio che la generazione dei nativi digitali scrive molto di più di quella precedente: son tornati i diari, anche se si chiamano blog; le lettere, anche se in messenger. C’è anche tutta una scrittura creativa, saggistica o didattica nel web. Riflettendo sulla dimensione pubblica e colloquiale della scrittura online, qualcuno ci vede una ripresa dell’agorà greco.

Ma, sottolineano tutti, manca il senso degli ambiti, il bilanciamento consapevole fra i diversi modi di usare il linguaggio scritto: «ke» non sostituisce sempre «che». «Scrivere correttamente un tema - sottolinea Lombardo - significa esercitarsi a essere pertinenti, a osservare e capire i dati, a organizzarli per renderli comunicabili attraverso il mezzo della lingua. Certo si fa fatica. E fa fatica anche il docente che deve correggere i temi. Forse per questo c’è chi non li assegna più».

Conferma Gian Gabriele Vertova, una vita a insegnare italiano agli studenti del liceo classico: «A un certo punto il tema non è più bastato e si è passati nell’esame di stato a diverse forme espressive e argomentative. Giusto per un verso, ma più complicato far esercitare e altrettanto artificioso esercitarsi». Una revisione didattica dell’italiano e dei suoi scopi, dalle elementari in su, si impone. Ma non è solo questo: «Tra gli adulti - osserva Vertova - abbiamo visto diffondersi la giustificazione dell’ignoranza. L’ignoranza non è più un buon motivo per stare zitti. E siccome aggredire è diventato il nuovo modo di argomentare, il senso della lingua è diminuito». Insomma, se nessuno dà valore a un discorso ben fatto che sottende un pensiero chiaro e ben definito, i ragazzi lo colgono al volo.

Sull’apprendimento dell’italiano, l’Università di Bergamo ha messo in cantiere un progetto di collaborazione con i docenti degli istituti superiori. Ne hanno parlato la scorsa settimana il rettore Stefano Paleari e il dirigente scolastico Luigi Roffia. Infatti, quest’anno, per la prima volta, tutte le università hanno avuto il test d’ingresso, purtroppo non nazionale e quindi statisticamente non significativo. Nell’ateneo bergamasco ogni facoltà ha fatto da sé. Scienze umanistiche ha dato per scontata la conoscenza della lingua e ha valutato invece le competenze di logica e letteratura; Giurisprudenza ha invece cercato di valutare l’esistenza di una minima conoscenza di linguaggio tecnico.

Lingue e letterature straniere ha realizzato un test con una sezione dedicata alla lingua italiana che ha lasciato qualche morto sul campo: «A settembre - spiega Piera Molinelli, prorettore per l’orientamento e docente di Sociolinguistica - il test è stato somministrato a circa 300 studenti, il 20% ha fallito la prova di italiano e sta seguendo i corsi di recupero». Errori di ortografia e distrazione, ma più spesso scarsa comprensione del testo: nota debolezza degli studenti italiani rilevata dai test Ocse Pisa per i quindicenni fino alle prove Invalsi per la seconda elementare. Così, dallo scrivere, si torna al punto di partenza: leggere.
 Susanna Pesenti

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