Ferrazzi: «Amo i motori
Così ho scelto di lavorare sul cuore»

Ex pilota di Formula 3, ex mediano nella nazionale giovanile di rubgy, appassionato cuoco, nonno anche a tempo pieno: ma soprattutto Paolo Ferrazzi, 64 anni, è direttore del Dipartimento cardiovascolare e dell'Unità struttura complessa di Cardiochirurgia dei Riuniti.

Ex pilota di Formula 3, ex mediano nella nazionale giovanile di rubgy, appassionato cuoco, nonno anche a tempo pieno: è tutto questo, a quasi 65 anni da compiere il prossimo 16 agosto, ma soprattutto Paolo Ferrazzi è direttore del Dipartimento cardiovascolare e dell'Unità struttura complessa di Cardiochirurgia degli Ospedali Riuniti di Bergamo. Allievo di Parenzan, ha seguito le sue orme non solo come cardiochirurgo ma anche come direttore dell'International hearth school che dal 2010 è tornata agli Ospedali Riuniti.

Quanti trapianti di cuore ha fatto?
«Personalmente, non ho mai tenuto il conto. Il mio Dipartimento a oggi è arrivato a quota 848. Tanti, da quella notte tra il 22 e il 23 novembre 1985, quando ai Riuniti l'équipe di Lucio Parenzan eseguì il primo trapianto di cuore. Io avevo 37 anni, e il mio maestro Parenzan mi diede l'onore di eseguirlo: gliene sarò grato per sempre. Mi sentivo come se dovessi scalare l'Everest, era il terzo trapianto in Italia. Prima lunghe ore passate accanto al paziente, poi una festa organizzata per celebrare l'evento: non dormivo da 48 ore, avevamo anche brindato abbondantemente, quando all'una di notte del 25 novembre arrivò la telefonata: "C'è un altro donatore". Fu come se dopo l'Everest mi chiedessero di scalare il K2: con Parenzan e la sua équipe ricominciò l'avventura. Andai dal paziente, Savino Fusaro, gli chiesi se se la sentiva, lui disse sì. Il resto è storia: conservo la commozione che ti dà la consapevolezza di poter far giocare a tennis un uomo che era dato per spacciato. Non abbiamo mai smesso di sentirci, Savino e io, vado almeno una volta all'anno in Puglia ad Andria da lui: che mozzarelle si mangiano, lì! Ho tenuto a battesimo il suo terzo figlio, avuto dopo il trapianto: l'ha chiamato Paolo, dice che l'ha fatto in mio onore».

Che anni erano allora, per i Riuniti e per Bergamo?
«Elettrizzanti, Bergamo era sotto i riflettori come realtà scientifica emergente. Queste potenzialità le avevo intuite già nel 1972, quando ci arrivai da neolaureato: sono veneziano, ho viaggiato sin da piccolo a seguito di mio padre, dirigente di una multinazionale, da Palermo, a Napoli e poi ancora a Roma, dove mi iscrissi all'Università, facoltà di Medicina e chirurgia. Dopo la laurea, visto che a Roma sembrava impossibile riuscire a fare il chirurgo ho comprato un biglietto del treno a lunga percorrenza e ho girato tutti i centri ospedalieri in Italia promettenti per il futuro della medicina. Bergamo stava acquistando fama per la Cardiologia: mi sono fermato qui. Dopo la specialità prima in Chirurgia pediatrica conseguita a Ferrara e in Cardioangiochirurgia a Bari, mi sono spostato in Francia, negli Usa e quindi al Consiglio nazionale delle ricerche a Massa. E poi sono tornato a Bergamo, come primario di Cardiochirurgia».

Prima nel 1972, poi il ritorno nel '99: Bergamo era il suo destino.
«Oggi anche i miei genitori, papà a 94 anni, e mamma a 90, vivono a Bergamo, li ho portati qui. Ricordo questa città la prima volta che la vidi: splendida, una calma quasi olimpica e allo stesso tempo di grande fermento. Ovunque in Italia mi trovassi, se dicevo che lavoravo a Bergamo mi replicavano: "Ah, dove operano al cuore"».

Ma perché ha deciso di occuparsi di cuore?
«Non so neppure perché mi sia iscritto a medicina: forse perché a 15 anni, da tennista promettente, mi ammalai, mi tennero a letto per un anno. Parlavano di un soffio al cuore, poi si scoprì che non avevo gravi problemi. Chissà, a pensarci bene però, forse ho scelto di occuparmi di cuore perché è il motore del corpo umano. E io ho una passione per i motori: correvo in Formula 3, per 5 anni ho fatto il pilota. Ho smesso subito dopo la laurea, quando la scuderia per la quale correvo mi avvertì che non riusciva a procurarmi nuove vetture. Mi diedi alla Cardiochirurgia».

Pioniere dei trapianti di cuore, tra i massimi esperti di cuore artificiale, e anche inventore di alternative al trapianto.
«La Cardiochirurgia non è solo trapianti. Ai Riuniti abbia creato una task force, per esempio, per la lotta alla scompenso cardiaco: oggi siamo forse l'unico centro in Italia così organizzato in modo multidisciplinare in grado di curare lo scompenso sia dal punto di vista chirurgico sia farmacologico in alternativa al trapianto. Significa dare prospettive di vita a persone che non ne avrebbero, senza trapianto: e i trapianti di cuore calano, per cali di donatori. Inventore? Diciamo che ho messo a punto una tecnica di ricostruzione ventricolare, a ferro di cavallo, che dal 2008 è stata applicata su 49 pazienti. Anche molto anziani. E poi c'è il brevetto della "molletta", oggi in fase di sperimentazione, che viene cucita attorno al ventricolo sinistro e che recupera e restituisce l'energia che il cuore scompensato disperde. Ecco, ritornano i motori: nel metterla a punto mi ci sono ispirato».

E quanto ha viaggiato, per esportare le sue conoscenze mediche?
«La solidarietà è per me fondamentale, in questa professione: i nostri bagagli di esperienza vanno messi a disposizione di altri Paesi più svantaggiati. Ho fatto missioni in almeno 10 Paesi: il più difficile è stato la Bielorussia, ricordo il freddo, cenavamo a casa di un primario con i cappotti addosso; il più intrigante l'Iraq. Oggi come Dipartimento abbiamo aperte due missioni in Uzbekistan e una in Kazakistan. In Uzbekistan abbiamo abbassato la mortalità dopo il bypass aortico dall'80% al 4%: una grande vittoria».

Ma quando va in pensione?
«Le dovrei dire di chiederlo a Monti, ma mi piace ancora tanto quello che sto facendo. E c'è ancora tanto lavoro da fare».

Motori, cuore, ma le piace anche stare ai fornelli.
«Anche lo sport: ho giocato a rubgy e lo amo, come il tennis. E poi sì, la cucina. Il piatto che mi viene meglio è il risotto con le seppie, ricetta di mia madre. E adoro fare il nonno: i miei figli Matteo, che sta a Vienna, e Claudia che lavora a Parigi mi hanno regalato quattro nipotini. Guardi questa foto: è una mia nipotina, gioca al dottore con la bambola. Seguirà le mie orme?».

Carmen Tancredi

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