Fikri: «Arrestato e picchiato
E adesso ho perso tutto»

«Non ho mai detto “Allah, perdonami non l'ho uccisa io”. Ho detto “Allah, fa che risponda”. Nel mondo un miliardo di persone parlano arabo. Perché non provano a mandare la frase su Al Jazeera?». Lo ha detto Mohammed Fikri.

«Non ho mai detto “Allah, perdonami non l'ho uccisa io”. Dal Marocco a Dubai, quello che ho detto significa “Allah, fa che risponda”. Nel mondo un miliardo di persone parlano arabo. Perché non provano a mandare la frase su Al Jazeera?». Mohammed Fikri, marocchino di 25 anni, unico indagato nell'inchiesta per l'omicidio di Yara Gambirasio, parla al settimanale Oggi, nel numero mercoledì in edicola, e ribadisce la sua versione sulla telefonata che nel dicembre 2010 portò al suo arresto.

A proposito dell'altra frase sospetta detta al telefono («L'hanno uccisa davanti al cancello»), Fikri dice: «È stata tolta da una conversazione tra me e la mia fidanzata Fathia. Fa parte di una telefonata in cui le spiegavo le domande degli inquirenti. Ed è stata lei a chiedermi se poteva essere stata uccisa davanti al cancello. Ma carabinieri e Pm di questa conversazione non mi hanno mai chiesto niente».

In Italia dal 2006, impiegato come pavimentista, Fikri è arrivato il mattino del 26 novembre, giorno della scomparsa di Yara, al cantiere di Mapello dove i cani hanno segnalato il passaggio della tredicenne, e dice di aver lavorato giorno e notte fino all'alba di sabato, con due sole soste per il pranzo e la cena, nel ristorante di un paese vicino. «Dopo le 18», racconta, «nel cantiere siamo rimasti in tre. Io, il mio principale Roberto Benozzo e il guardiano. Alle 19 io e Benozzo siamo usciti, per andare a cena e se qualcuno è entrato il guardiano dovrebbe saperlo. Noi non abbiamo visto o sentito niente».

Il sabato Fikri ha comprato il biglietto per tornare in Marocco con partenza il 4 dicembre da Genova e dice di aver informato del suo viaggio i carabinieri di Ponte San Pietro quando lo hanno ascoltato la mattina del 3 dicembre. «Ho lasciato persino i miei recapiti in Marocco», aggiunge, «e il giorno dopo sono partito. Non ho imbarcato nessun furgone bianco, ma la mia Golf. Il furgone era di mio cugino Mohammed che aveva preso il biglietto una settimana prima di me».

Nell'intervista Fikri descrive anche le fasi dell'arresto: «I carabinieri mi hanno detto che c'era un problema e dovevo tornare con loro in Italia. Ho fatto presente che a bordo c'era la mia auto con la mia roba e hanno risposto che ci avrebbero pensato loro». Poi Fikri lancia accuse pesanti: «Mi hanno messo un cappuccio nero in testa e mi hanno portato a riva. Non vedevo niente, ero terrorizzato. A terra qualcuno ha sollevato il cappuccio e mi ha fissato. “È lui”, ha detto e ha riabbassato il cappuccio. Mi hanno caricato su un'auto e per tutto il viaggio mi hanno trattato da assassino. Andavano a 220 all'ora, anche di più. A mezzanotte eravamo a Bergamo, hanno cominciato a far domande, poi con 6 gradi sotto zero, sulle scale davanti al cortile della caserma mi hanno fatto spogliare. Ho tolto tutto, slip, calzini e sono rimasto nudo. Insistevano “confessa, Benozzo ha detto che sei stato tu!”. Ho preso un ceffone e un calcio sulla tibia, poi mi hanno portato in carcere».

Il mattino dopo, prima di incontrare il Pm, Fikri ha voluto rispondere a tutte le domande: «Ho dato tutti gli elementi per verificare il mio racconto e ho chiesto che la frase venisse tradotta di nuovo. Il lunedì ero già libero, ho riavuto telefono ed effetti personali, sono partito per il Marocco. Quando sono tornato in Italia, credevo fosse tutto finito. Ma l'incubo continua».

«In questa storia», dichiara Fikri a Oggi, «di vittima ce n'è una, si chiama Yara. Io sento di aver subito un'ingiustizia ma per fortuna posso difendermi e appena questo incubo finirà chiederò indietro tutto quello che mi è stato tolto. L'onore, il lavoro, gli amici e Fathia, la donna che dovevo sposare, e un anno fa, distrutta da questa storia, mi ha lasciato».

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