Polenta, il ricercatore del Cnr
è smentito dai nonni

di Pier Carlo Capozzi
Se il piatto piange, il paiolo si sta disperando. Il ricercatore del Cnr vuole farci credere che la polenta possa essere causa del cancro all'esofago. Sarebbe come far circolare a Napoli la notizia che la pizza sia la principale indiziata per l'impotenza.

Se il piatto piange, il paiolo si sta disperando. Il ricercatore del Cnr, Roberto Defez, vuole farci credere che la polenta possa essere causa scatenante del cancro all'esofago con tutto quello che ne consegue. Sarebbe come far circolare a Napoli la notizia che la pizza sia la principale indiziata per l'impotenza e la caduta dei capelli.

Allarmismi che, del resto, hanno precedenti storici illustrissimi. Nella metà dell'800, a studiare l'epidemia di pellagra in Val Brembana, si scontrarono Filippo Lussana, che imputava la malattia ad una dieta povera e basata esclusivamente sulla polenta, e nientemeno che Cesare Lombroso. Costui, tra uno studio fisiognomico e l'altro di vari assassini, trovò il tempo per dire che l'epidemia era causata da pannocchie di mais guasto. Diedero ragione a Lussana e Lombroso tornò definitivamente alle sue facce da criminale.

Molto più recentemente il professor Veronesi ebbe a dire che aveva messo in guardia i suoi figlioli dal consumo della polenta. Onestamente, e con tutto il rispetto, non ci sembra il caso. Non solo perché l'impasto dorato, per noi bergamaschi, è come una bandiera identificativa che ci suggerisce di proclamare che «si può parlare in libertà fino alle undici e mezzo, poi però bisogna scodellare la polenta», fantastica essenza del nostro essere pratici. Non solo per le innumerevoli citazioni culturali che l'accompagnano: dai versi di Giacinto Gambirasio, musicati da Pizzi e sottoposti ad un entusiasta Mascagni, alla descrizione che ne fa Alessandro Manzoni («È come una piccola luna in un cerchio di vapori»). Ma anche perché, lontani da cattedre e microscopi, dotati soltanto di un pizzico di casuale buon senso, c'è qualcosa, in questo allarme reiterato e catastrofico, che non torna.

Pensiamo a generazioni di nostri vecchi, soprattutto a quelli di montagna, che dopo un'intensa giornata lavorativa, nei boschi o nelle stalle, negli alpeggi o in bottega, arrivata sera, si sedevano al desco dove presto sarebbe arrivata, direttamente dal camino, una polenta fumante.

Ripetiamo: nostri vecchi. Se fosse così terribilmente esatta la nefasta tesi del Cnr, lassù, vecchi sarebbero diventati in quattro o cinque, considerando che tutti facevano colazione con una fetta di polenta nel latte caldo. Invece, ringraziando il cielo, le nostre pagine sono piene di ultraottuagenari che festeggiano in piena forma il compleanno, avendo cura di soffiare su una miriade di candeline infilzate talvolta in una torta di mais, con più frequenza direttamente sulla polenta stessa. Sorprendente anche l'allarme per gli altri pericoli sventolati, il caffè e la grappa su tutti. Additando, in questo modo, quelli che finiscono la cena con un caffè corretto alla stregua di aspiranti suicidi.

Orbene: come risaputo, il segreto sta nella moderazione e la storia ci insegna come cibarsi di sola polenta non sia precisamente il massimo. Anche se all'epoca, povere anime, avevano quella e basta. Forse nemmeno un'aringa affumicata per un veloce «pica sö». Noi siamo decisamente più fortunati. Ma procurare panico intorno al nostro piatto simbolo, emblema della gastronomia e non solo, non ci troverà per niente allineati. Troviamo che in questi allarmi ci sia troppa confusione, disordine, scompiglio. Mentre noi, di guazzabuglio, ne apprezziamo uno solo. La Polenta pasticciata.

Pier Carlo Capozzi

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