Europa indigesta
Governo senza pace

Sopravviverà il governo all’esito delle elezioni europee? Chissà. Giuseppe Conte potrebbe cadere questa mattina e potrebbe invece andare avanti ancora un poco. Ma non tanto, questa è l’unica cosa sicura. Se anche la rottura tra Salvini e il M5S avvenisse domani, improvvisa e violenta, e la legislatura si frantumasse tanto da indurre Mattarella a sciogliere le Camere, si dovrebbe andare a votare in pienissima estate, improbabile, o aspettare almeno settembre. E siccome siamo già entrati nel tunnel che ci porta alla legge di Bilancio, settembre è un mese cruciale e bisogna che ci sia un governo decentemente in piedi.

Sta per arrivare la lettera della Commissione con cui Bruxelles comincerà a pressarci sui conti pubblici, rischiamo una procedura di infrazione con relativa multa miliardaria, dobbiamo trovare una montagna di soldi solo per impedire che scatti l’aumenti dell’Iva e spenga così definitivamente la lucina che ci dice che il Paese ancora cresce, poco pochissimo ma cresce. Come si fa a far precipitare tutto?

Certo è facile che il gioco sfugga di mano. Oggi la scena è così definita. Da una parte Salvini non smette un attimo di battere i pugni sul petto e sul tavolo per far capire che chi comanda è lui, e di snocciolare elenchi sempre più lunghi di cose da fare improcrastinabili, imprescindibili, prioritarie che ai grillini fanno semplicemente venire l’orticaria come la Tav. Senza contare le mille riserve di Di Maio e compagni sul decreto sicurezza-bis, l’autonomia rafforzata delle regioni del Nord, la Flat Tax, ecc.

Dall’altra parte del palcoscenico sta un Di Maio che non è chiaro quanto resterà sulle sue varie poltrone dopo aver condotto il Movimento – in gran parte recalcitrante, ma pur sempre obbediente – verso una Waterloo molto simile a quella di Renzi dell’anno scorso. Il segretario Pd, crollato dal 40 al 18 per cento, si dimise un attimo dopo il risultato; Di Maio quasi con lo stesso risultato invece resiste, prende tempo, giura che Grillo, Casaleggio, Fico e Di Battista lo vogliono ancora seduto al suo posto. Ma la truppa parlamentare rumoreggia e si agita: per troppi deputati e senatori se si andasse a votare anzitempo il ritorno a Montecitorio e alle sue lusinghe sarebbe impossibile, e dunque vogliono solo fermare il tempo, rimanere sullo scranno parlamentare il più a lungo possibile. Qua e là si sente la parola «dimissioni», mentre qualche coraggioso a Di Maio chiede almeno di rinunciare a qualcuno dei suoi tanti incarichi: leader politico, vicepremier, ministro dello Sviluppo Economico, ministro del Lavoro, che neanche Fanfani ai tempi della Domus Mariae.

È chiaro che a Salvini questa situazione giova: comandava già prima, figuriamoci ora che ha il doppio dei voti del suo alleato-avversario rimasto in bambola dopo lo schiaffo degli elettori. Il Capitano può imporre le sue regole e consolidare il consenso che si è guadagnato ma che, si sa, di questi tempi viene e va come un venticello di primavera. Viceversa sono proprio le inquietudini grilline a rappresentare la vera incognita: potrebbero decidere che l’unico modo per sopravvivere è quello di mollare Salvini tra mille improperi, far cadere il governo, tornare all’opposizione e ricominciare a gridare «o-ne-stà, o-ne-stà» per riconquistare la perduta verginità politica. Una vera e propria sortita fuori delle mura alla disperata. Chissà che non capiti di incontrare Zingaretti e Prodi.

Questo è il punto che oggi non ci consente di dare una risposta alla domanda con cui abbiamo cominciato questo articolo. Le uniche certezze sembra nutrirle il professor Conte che continua a ripetere a chiunque lo incontri in queste ore «che lui è il premier» e «che non si farà commissariare da nessuno». Ci mancherebbe.

© RIPRODUZIONE RISERVATA