Il debito provoca
perdita di autonomia

Günther Öttinger non è un’aquila. Il commissario europeo in quota Germania è noto per i suoi scivoloni. Ha detto che i mercati ci penseranno loro ad insegnare agli italiani come votare. Un gesto di arroganza di cui si è scusato. Ma il dito nella piaga l’ha messo. Non è colpa sua se lo spread è salito oltre quota 300 punti e se l’Italia è andata sotto schiaffo. La volontà politica dei governanti non basta quando bisogna chiedere soldi agli altri. Una cosa che forse in Italia non è chiara a tutti è che il debito provoca dipendenza e perdita di autonomia.

Chi condiziona la vita del Paese Italia non è a Berlino o a Bruxelles ma abita a Wall Street, ha spesso il volto imberbe del ragazzino che si alza la mattina, guarda le agenzie e pensa di fare il colpo quando capisce che a Roma regna il caos. È stato l’incubo di Carlo Cottarelli, per decenni al Fondo monetario internazionale, e avvilito all’idea che il Paese si consegni ai populisti. Il vero problema è che per spendere bisogna risparmiare. Ogni famiglia sa che si perde in libertà nel preciso momento in cui ci si indebita oltre il dovuto.

La sovranità italiana è andata persa da quando si è cominciato a chiedere agli altri quello che lo Stato italiano non poteva permettersi. Non c’erano i soldi ma si spendeva lo stesso. Si è andati avanti per decenni sino ad arrivare al dunque. La globalizzazione ha posto un tema all’ordine del giorno: la competitività. La Germania ha colto per prima il cambio di passo, si è adeguata e da allora guida le danze. Con suo grande profitto. Agli altri sono restate due vie alternative: fare riforme di sistema per colmare il ritardo in termini di produttività oppure svalutare. All’Italia dagli anni Settanta in poi è sempre stata congeniale la seconda via, anche al prezzo di alti tassi di inflazione. Fino all’ingresso nell’euro. Da quel momento la svalutazione monetaria diventa impossibile e vi è solo una via da percorrere: fare le riforme per rendere il sistema in grado di fronteggiare la sfida dei grandi competitori intercontinentali. L’Europa tiene se ottimizza al meglio il suo mercato di oltre 500 milioni di consumatori e quindi fa massa verso i colossi cinesi e americani. Questo spiega perché in questi giorni la Confindustria e gli imprenditori si sono spesi con fervore per una soluzione politica che favorisca la permanenza dell’Italia nell’eurozona. Sono 100 i miliardi di euro annui di fatturato delle imprese italiane solo per Francia e Germania. Vedersi sbarrare il libero accesso a questi mercati sarebbe per la manifattura italiana un suicidio. E l’Italia ha un surplus di export a conferma che la parte migliore dell’imprenditoria ha fatto il salto di qualità e si è emancipata dalla dipendenza delle svalutazioni competitive.

Ma non basta perché una parte del Paese teme il futuro e d’istinto si rivolge al passato. Questo spiega il successo dei cosiddetti populisti. Eppure la soluzione ci sarebbe: basterebbe dire a chiare lettere che da 830 miliardi di spesa pubblica annua vanno tolti 100 miliardi di inefficienze, sovvenzioni, spese improduttive. Solo così si finanziano le riforme proposte da Lega e 5 Stelle. Certo a qualche beneficiato potrebbe costare qualche sacrificio e ai partiti politici voti e popolarità. Ma per l’Italia sarebbe la fine della dipendenza. Finalmente a schiena dritta e senza il cappello in mano. Non sarà così. Troppi costi politici. I partiti si indignano a ragione per Oettinger ma poi di fatto lasciano alla speculazione internazionale il compito di spiegare a colpi di spread che i 2 mila miliardi di euro di risparmi di decine di milioni di famiglie italiane sono a rischio.

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